Pubblichiamo il testo di Claudio Di Minno, ex Segretario generale dell’Associazione Museo Nazionale del Cinema (AMNC) e curatore del numero 88 di “Mondo Niovo 18-24 ft/s” interamente dedicato a Roberto Herlitzka che nel 2011 ha ricevuto nell’ambito del Torino Film Festival il Premio Maria Adriana Prolo che per l’occasione gli fu consegnato dal regista Marco Bellocchio.
In una mattina d’autunno percorsa da una luce e da un calore ancora estivi che a noi torinesi, da alcune settimane di nuovo abituati all’incedere delle prime nebbie e dei primi freddi, appariva quasi immeritata, fummo accolti nella sua abitazione romana da Roberto Herlitzka, al quale avremmo consegnato di lì a breve il Premio Maria Adriana Prolo 2011. Con un sorriso discreto e sincero aprì la porta del suo appartamento a me e a Vittorio Sclaverani, per concederci un’intervista che sarebbe apparsa su un numero speciale di “Mondo Niovo 18-24 ft/s” a lui dedicato.
Con passo lento e deciso ci condusse nel suo studio dove, poggiati su una scrivania di legno massiccio, erano aperti due volumi, entrambi in edizioni Garzanti ormai ingiallite. Il primo era Il paradosso dell’attore di Denis Diderot: lo stava rileggendo perché ne avrebbe portata in radio una riduzione («Esprime delle idee che erano scandalose allora e probabilmente lo sono ancora di più adesso», disse. «Infatti, sostiene che l’attore non deve avere sensibilità, che l’attore deve essere assolutamente freddo, intelligente, e, pur dovendo essere in grado di guardare gli uomini che vivono per poterli imitare in scena, lui non deve sentire. Non è così semplice, ovviamente, ma la sostanza è questa. Vai a dire oggi a uno che fa televisione che non deve sentire…» concluse Herlitzka). Il secondo libro era una raccolta del teatro di Cechov. Ingenuamente pensai fosse alle prese con un’imminente interpretazione di una pièce del grande drammaturgo e scrittore russo – lui che aveva interpretato da giovane prima Tre sorelle per la regia di Orazio Costa, suo maestro, poi Zio Vanja diretto da Gabriele Lavia nel pieno della maturità – e glielo chiesi. Herlitzka rispose che stava semplicemente studiando, perché, sostenne, il primo dovere di un attore di teatro è di studiare la drammaturgia, e quella di Cechov, continuò, aveva ancora molto da insegnare. E infatti quel volume era fitto di sottolineature a matita e di note a margine: testimonianza concreta della fedeltà a quanto mi aveva appena detto. E concluse con alcune parole che non potemmo non inserire nel nostro dialogo poi pubblicato, parole che mostrano ancora oggi la profondità del suo pensiero su cinema e teatro, due dei grandi palcoscenici (l’altro è la radio: chi vuole – e non se ne pentirà – può recuperare in rete la registrazione della sua vibrante lettura di uno dei più sottostimati romanzi del Novecento italiano, Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino) in cui Herlitzka ha mostrato la sua grandezza:
«[…] cinema e teatro, in quanto si differenziano per una ragione che solitamente non viene molto accettata quando la sostengo, ma io ci credo, ovvero che la differenza la fa il testo. Nel senso che il testo che si rappresenta in teatro, credo, deve avere un valore letterario, poetico, deve essere un’opera viva. Per rappresentare un’opera viva bisogna fare qualcosa di assoluto, qualcosa che vale quanto l’opera originaria, e cioè che abbia un valore il più possibile eterno. Quindi non si può recitare naturalisticamente, perché il naturalismo ti richiede in quanto attore di essere credibile in un dato momento, quello in cui reciti. Al cinema, inoltre, il testo non c’è. Certo, c’è una sceneggiatura, ma la parola resta in qualche modo collaterale, mentre in teatro è centrale. Per cui non possono essere simili le recitazioni, perché se tu fai naturalisticamente un lavoro di Shakespeare non ottieni un risultato in grado di andare di pari passo con la lettera. Esistono certamente anche i film in cui si recita Shakespeare come “si dovrebbe”, ed è il caso di quelli con Laurence Olivier, ma si tratta di miracoli. Diderot, che sto rileggendo, esprime delle idee che erano scandalose allora e probabilmente lo sono ancora di più adesso. Infatti, sostiene che l’attore non deve avere sensibilità, che l’attore deve essere assolutamente freddo, intelligente, e, pur dovendo essere in grado di guardare gli uomini che vivono per poterli imitare in scena, lui non deve sentire. Non è così semplice, ovviamente, ma la sostanza è questa. Vai a dire oggi a uno che fa televisione che non deve sentire… Lui si sforza in tutti i modi di sentire e magari non ci riesce: l’idea di non dover sentire lo turberebbe…».
Il nostro dialogo si soffermò soprattutto sul cinema. Herlitzka era allora reduce da una sorta di rinnovata carriera sul grande schermo. Pur avendo in precedenza lavorato con registi come Lina Wertmuller, Emidio Greco, Giuliano Montaldo, Peter Del Monte e Luigi Comencini, e avendo interpretato personaggi di rara complessità come l’economista Federico Caffè ne L’ultima lezione, 2001, di Fabio Rosi, è con Marco Bellocchio che si era creato un sodalizio che vide il suo culmine nell’interpretazione di Aldo Moro in Buongiorno, notte nel 2003. Il quindicennio successivo è stato un succedersi di film in cui anche il grande pubblico acclamò la bravura di Herlitzka, capace di indossare con la stessa professionalità i panni dell’austero conte Basta in Sangue del mio sangue (2015) di Bellocchio e quelli del divertito e al contempo cinico Orlando Serpentieri nella serie Tv Boris (2007).
Del suo lavoro con Bellocchio in Buongiorno, notte ci raccontò qualcosa che merita di essere riportato:
Bellocchio stesso mi ha detto che inizialmente il mio ruolo in sostanza non era previsto. Non voglio dire fosse una voce fuori campo, ma insomma, si trattava di una sorta di ombra. Poi invece il regista ha deciso di svilupparlo. Sinceramente non so se sono stato la prima scelta, e non voglio neanche saperlo. Lui mi ha detto di avermi scelto perché gli ricordavo suo padre.
Quale che sia stata la ragione, alla fine ho provato la sensazione entusiasmante che il mio personaggio stesse crescendo durante la lavorazione. Nel senso che come abitudine venivo ripreso da Bellocchio per qualche azione, ma poi mi accorgevo che la macchina da presa continuava a rimanere su di me più di quello che le esigenze di ripresa richiedessero. Questo mi emozionava, perché vedevo l’occhio di Bellocchio che mi guardava: lui mi ha poi detto che era molto convinto di quello che facevo e che la mia parte era cresciuta molto nel corso delle riprese. È stata un’esperienza straordinaria: mi sono accorto che il personaggio c’era sempre di più, che diventava sempre più profondo. Non è che io facessi cose in più rispetto a quello che lui mi chiedeva. Era Bellocchio che indugiava maggiormente su di me. Ovviamente questo mi portava a ricercare di più, ma erano solo espressioni, stati d’animo rievocati, non erano delle azioni inventate dal nulla. Non mi ha lasciato carta bianca, sono stato io che mi sono sentito responsabilizzato nei confronti del personaggio. Ovviamente la protagonista del film è Maya Sansa, e […] Moro doveva essere solo una figura di riferimento. Alla fine è invece diventato una figura centrale.
Parlandoci dei colleghi che più stimava, Herlitzka si soffermò su Piera degli Esposti, a cui l’AMNC avrebbe consegnato il Premio Maria Adriana Prolo nel 2013.
Mi tocca da vicino, perché ha un modo di recitare che corrisponde ad una totale metamorfosi del testo che diventa teatro. Sempre però con l’intelligenza personale che è in grado di filtrarlo. In questo senso, Diderot approverebbe moltissimo il suo modo di recitare. Non che lei sia una razionalista, ma perché ha un’intelligenza superiore per quanto riguarda il teatro e quindi il suo modo di recitare è sempre qualcosa di assoluto, e al contempo anche di molto divertente. Infatti, quando fa il comico è davvero irresistibile: l’ho vista in uno spettacolo di Campanile in cui era travolgente. Ma le ho visto portare in scena i grandi personaggi della tragedia greca mostrando la sua capacità di recitare un dramma rivissuto, anche attraverso una superiore ironia, che è quella che soccorre gli attori […] Poi lei è straordinaria anche al cinema. Una delle cose che mi hanno colpito di più è la sua interpretazione della segretaria di Andreotti ne Il divo: è assolutamente vera, non ha nulla di epico, di lontano.
Non potemmo non domandargli qualcosa sulle sue origini, dato che nacque a Torino nel 1937.
A Torino ho trascorso l’infanzia e parte dell’adolescenza. Naturalmente essendo quello un periodo della vita in cui si hanno parecchie difficoltà, non è che i miei ricordi siano tutti piacevoli. Torino è una città la cui bellezza mi era già ben presente a quei tempi. Quindi rivederla è un’emozione che si ripetere ogni volta. Poi è vero che sono fuggito da Torino. Intanto perché fare l’attore a Torino era difficile, e poi perché Torino era, e lo è ancora in parte, molto chiusa, una città che non offre grandi possibilità in certe direzioni. Oggi quando torno ne risento il fascino, il suo essere un po’ privata, chiusa in se stessa. […] Per fare l’attore ho viaggiato molto, ed è per questo che a Torino ci torno volentieri, anche perché riassaporo atmosfere che rimandano alla mia giovinezza, ed è sempre emozionante: il passato è sempre e comunque qualcosa che non ti lascia indifferente. Poi Torino ha una caratteristica che personalmente mi suggestiona molto: è una città metafisica, una città dove la realtà è abbastanza dubbia. Prendete la sua conformazione, le luci che la attraversano tutta: sono caratteristiche che altrove non si trovano. Prendete la collina, la parte del fiume, alcuni quartieri come quello in cui io abitavo, la Crocetta, sono tutti luoghi che hanno una sorta di loro sospensione che altrove non ho mai trovato.
A Torino Herlitzka ci avrebbe raggiunti nel novembre successivo per la consegna del Premio Maria Adriana Prolo alla carriera. Lo ritirò con la stessa modestia mostrata quando è stato insignito di altri prestigiosi riconoscimenti (Premio Flaiano e Ubu per il teatro, Nastro d’oro e David di Donatello per il cinema).
Allontanandoci da casa sua, con in tasca le registrazioni delle sue parole, pronti a trasferirle su carta, ci dirigemmo soddisfatti verso la Galleria Borghese. Complice l’aver perso il tram che vi avrebbe riportati verso la nostra preventivata destinazione, percorremmo viale del Muro Torto sino a giungere in Piazzale Flaminio dove, data la vicinanza, non resistetti dal voler compulsare tra le bancarelle di libri usati di Lungo Tevere Oberdan. Fu proprio lì che scovai – attorniato da libri che solo una stagione prima erano stati bestsellers di grido e ormai si trovavano già in liquidazione al prezzo di una manciata di euro – una copia de Il paradosso dell’attore. Una semplice coincidenza apparve a me, poco propenso a leggere il caso come un segno, quantomeno singolare. Mi ripromisi di farmelo autografare da Herlitzka quando lo avrei incontrato nuovamente. Forse perché avrei dovuto raccontargli la casualità accaduta, o forse perché timoroso della perplessità che avrebbe mostrato alla mia richiesta, non glielo avrei poi chiesto. Oggi avrei riaperto quel volume e avrei visto la sua grafia, la stessa con cui ci inviò, pochi giorni dopo la consegna del premio, con un gesto non scontato, una lettera di ringraziamento per l’attenzione mostrata nei suoi confronti.
Oggi non posso rileggere il suo tratto vergato a mano, ma, come tutti, posso riandare ad ascoltare la sua voce, profonda e insinuante come un fiume carsico capace di inabissarsi e di riaffiorare inatteso nella sua unicità. Oggi che vengo a conoscenza della sua scomparsa, mi piace ricordarlo con le parole che pronuncia, interpretando il professor Fiorito ne Il rosso e il blu, 2012, di Giovanni Piccioni:
Cerchiamo regole, forme e canoni, ma non cogliamo mai il reale funzionamento del mondo, la vera forma di tutto ciò che è fuori di noi, come di tutto ciò che è dentro di noi: è, per gli uomini, un eterno mistero. L’incapacità di risolvere questo mistero ci terrorizza e ci costringe ad oscillare tra la ricerca di un’armonia impossibile e l’abbandono al caos. Ma quando ci accorgiamo del divario che c’è tra noi e il mondo, tra noi e noi, tra noi e Dio, allora scopriamo che possiamo ancora provare stupore e che possiamo gettare uno sguardo intorno a noi come se fossimo davvero capaci di vedere per la prima volta.
Quello stesso stupore che proveremo, vedendo e ascoltando le interpretazioni di uno dei più grandi attori italiani di tutti i tempi, come fosse, sempre, ogni volta, la prima volta.
Claudio Di Minno