Giuseppe Piccioni ha ricevuto il Premio Maria Adriana Prolo 2021

Giuseppe Piccioni ha ricevuto ieri sera, dalle mani di Margherita Buy, da trent’anni indissolubilmente legata al suo cinema, il Premio Maria Adriana Prolo alla carriera 2021. Vittorio Sclaverani, presidente di AMNC, ha fatto un bilancio delle attività associative dell’anno che volge al termine e Caterina Taricano, direttrice di Mondo Niovo, ha presentato il 106esimo numero della rivista interamente dedicato al regista ascolano.

La rivista contiene una lunga intervista di cui vi proponiamo qui di seguito un estratto.

A proposito del tuo rapporto con il cinema italiano, quanto il tuo percorso pensi sia coerente con quello che è stato proposto negli ultimi quarant’anni e quanto secondo te invece si discosta?

Vorrei poter non rispondere a questa domanda, non so se ho già detto troppe cose o se sarebbe meglio che altri dicessero qualcosa, ma ormai non posso tirarmi indietro. Credo di non aver avuto maestri o dei riferimenti, il senso di condividere un orientamento comune o di appartenere all’ambiente. Non penso che negli ultimi trent’anni possano valere i discorsi che si fanno sulla “grande famiglia del cinema italiano”. La mia unica preoccupazione, ma credo che appartenga a tutti i miei colleghi, è che qualcuno possa riconoscermi nelle storie che racconto, che in molti dei miei film ci sia qualcosa per cui alla fine si possa parlare di una coerenza tematica, o meglio, azzardo, poetica. Penso che ci sia un limite in quella divaricazione di stili, argomenti, che fanno pensare a un cinema italiano che sembra avere due o tre strade obbligate: quella del realismo e della commedia, l’attenzione al “sociale”, l’impegno e i film che sbrigativamente vengono definiti “commerciali”. Non sempre queste scelte dicono qualcosa di definitivo sul valore di questi film. Credo però di aver scelto una strada che mette insieme il realismo ma con un piccolo scarto che mi preserva dall’essere identificato in quell’ambito. Però non sono, non voglio apparire un esempio di rigore, cerco il rapporto col pubblico. Mi piace il rito che si consuma in una sala cinematografica dove lo spettatore riesce a portare a casa qualcosa che gli procuri la sensazione di non aver buttato via il suo tempo. Il lavoro di un attore, qualche dialogo, una scena, qualcosa. Poi ci sono i film, quelli che ho amato, incondizionatamente, senza pensare troppo, senza nutrire sospetti. Rossellini di Viaggio in Italia, Pietrangeli di Io la conoscevo bene, Scola di Una giornata particolare, il primo Fellini, alcuni film di Germi per arrivare a certe atmosfere di Bellocchio, quel clima di dormiveglia che c’è in molti suoi film, Del Monte di Compagna di viaggio o di Invito al viaggio, l’irriverenza narrativa autoriferita ma capace di rappresentare un mondo di Nanni Moretti, la libertà senza mezzi termini, senza timori di Sorrentino nei suoi film migliori, ma ce ne sono tanti altri… penso però che se si mettessero insieme i due o tre film migliori di ogni regista italiano, tra i più interessanti, che ha lavorato negli ultimi trenta o quaranta anni, ci troveremmo di fronte a una bella collezione. Io cerco il mio posto, immodestamente, in questa collezione. L’ambizione maggiore è che ci sia tra gli spettatori che hanno guardato un mio film qualcuno che aspetta di vedere il prossimo, di essere una piccola parte dei suoi appuntamenti, delle sue attese e magari uno di questi, forse un giovane di provincia, si senta incoraggiato a fare lo stesso mio lavoro.

Ma cosa ti spinge a scegliere un attore, o a richiamarlo per uno o più film?

Ogni attore o attrice ha sempre qualcosa che mi colpisce profondamente, che mi fa pensare di avere assolutamente bisogno di lui o di lei. Di Margherita Buy ad esempio mi ha colpito la grazia, l’immediatezza e la capacità di orientarsi velocemente sul set e di essere, o meglio, di sembrare così poco strutturata. In Fuori dal mondo, nel dialogo a casa del personaggio di Silvio Orlando guardando il primo piano di Margherita si notano tanti micro-movimenti degli occhi, mai eccessivi, come una coreografia di movimenti impercettibili. È davvero un dono. Prima di girare sembra spaventatissima, a volte ti dice «Non so’ capace, Piccioni, non so’ capace!», ma io non la prendo sul serio e approfitto di questa nostra amicizia per dirle con tranquillità: «Ah, non la vuoi fare? E allora non la fare! Falla come vuoi tu!». Allora lei si ravvede, ed è in grado di fare praticamente tutto bene al primo colpo; è talmente dotata che ci sono alcuni aspetti che potrebbe ancora esplorare; bisognerebbe impegnarsi a trovarle delle storie all’altezza del suo talento. Il lavoro con gli attori è fatto di queste cose, è un corpo a corpo, dicevo, come quando vuoi che l’attore dica appunto qualcosa che non è facilmente dicibile perché è scritto, e l’attore deve invece riuscire a rendere quella parola scritta pronunciabile. Così, se c’è una dichiarazione d’amore, gli chiedi di essere asciutto in modo che quel suono non sia troppo carico di significati. In altri casi, invece, cerchi proprio una certa retorica, in film dove non c’è solo l’under-play ma anche l’over-acting. Il professor Fiorito ne Il rosso e il blu è overacting, ed è pertinente perché il personaggio è teatrale. Sergio Rubini comunque è stato il primo, ero così contento di avere lui nel mio film perché mi sembrava che mi avesse regalato qualcosa; lo stesso vale per Margherita. Sono cavalli di razza. A volte nella carriera dei registi gli incontri con gli attori sono decisivi, com’è successo a Paolo Sorrentino con Toni Servillo, che hanno costruito qualcosa che ha giovato alla carriera di entrambi. Con Margherita eravamo molto vicini; il suo personaggio in Fuori dal mondo, poi, si chiamava Caterina, che è il nome che ha dato a sua figlia che ha avuto proprio dopo quel film. Di Caterina sono stato anche padrino di battesimo. A proposito di presenze fondamentali, un altro incontro importante per me è stato quello con Sandra Ceccarelli. L’ho scoperta vedendo un piccolo film, bellissimo: Tre storie di Piergiorgio Gay. È stata una folgorazione. Ho subito pensato che riempisse un vuoto nel mio immaginario, o meglio che corrispondesse in pieno all’idea di un tipo di attrice in grado di interpretare personaggi inediti nel cinema italiano in cui le donne, quando non hanno ruoli semplicemente decorativi, sono spesso rassicuranti, riconoscibili. Con le sue ombre, il tono di voce, l’inquietudine che suscita il suo sguardo, mi sembrava che appartenesse a una galleria di personaggi femminili di tanti film noir che avevo visto e amato. Insieme a tutto questo, nella recitazione, porta un grado di verità che non è mai mestiere, o meglio priva dei trucchi del mestiere…

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