Hedy Lamarr è famosa perché suo è stato il primo nudo integrale della storia del cinema, nel film Estasi ( 1933 ) del cecoslovacco Gustav Machaty. Lamarr non è stata però solo un’importante attrice; altrettanto fondamentale, e molto meno conosciuta, è stata la sua attività di inventrice. I suoi studi, infatti, compiuti nel contesto della lotta al nazismo sono all’origine delle tecnologie wireless.
Il libro L’informatica al femminile. Storie sconosciute di donne che hanno cambiato il mondodi Cinzia Ballesio e Giovanna Giordano indaga proprio il contributo dato dalle donne allo sviluppo dell’informatica e dell’internet; matematiche, fisiche, ingegnere, imprenditrici e pure attrici come Hedy Lamarr hanno contribuito in maniera essenziale a questa rivoluzione culturale e tecnologica, come emerge dal libro della Ballesio e della Giordano,.
La rassegna “Parole&Cinema”, dedicata dall’Associazione Museo Nazionale del Cinema, alla presentazione di libri sul cinema in cui la settima arte – qui rappresentata proprio dalla Lamarr – si incrocia con aspetti della realtà sociale, politica e culturale, torna con questo volume fondamentale per come scava nei meandri della storia ufficiale e delle questioni di genere, permettendo di conoscere e scoprire vicende e protagoniste poco raccontate e conosciute.
Mercoledì 13 novembre, alle ore 21, appuntamento da Luoghi Comuni Porta Palazzo, in via Clemente Damiano Priocca 3, a Torino.
L’informatica al femminile. Storie sconosciute di donne che hanno cambiato il mondo verrà presentata dalle autrici Cinzia Ballesio e Giovanna Giordano e dall’editrice Silvia Ramasso di Neos Edizioni, le quali dialogheranno con Edoardo Peretti del’Associazione Museo Nazionale del Cinema. A seguire, la proiezione de Bombshell: The Hedy Lamarr storydi Alexandra Dean, documentario dedicato alla star e inventrice.
Si avvia verso la chiusura il progetto Ragazzi in Città affrontato, per quanto riguarda l’Associazione Museo Nazionale del Cinema (AMNC), con la scuola Alvaro-Gobetti di Mirafiori e la G.B. Viotti. Il percorso di educazione all’immagine e sul cinema è stato arricchito da un intervento del regista Giovanni Piperno che ha mostrato i suoi corti tra fiction e documentario girati con gli adolescenti di Roma e Napoli. Sono ora previste le ultime due proiezioni pubbliche della rassegna, molto importanti perché coinvolgeranno nelle presentazioni le classi della Alvaro-Gobetti e quelle della Viotti in un proficuo scambio.
La prima in programma a Cascina
Roccafranca (Via Edoardo Rubino 45, Torino), domenica 10 novembre alle ore 16,30. Seguirà la domenica
successiva, 17 novembre alle 16,30, ai Laboratori di Barriera
(Via Baltea 3, Torino) in cui i ragazzi dell’Alvaro-Gobetti saranno comunque
coinvolti nel presentare un cortometraggio che hanno eletto come il migliore di
quelli che sono stati mostrati loro, ossia Fame di Luca Buzzi
Reschini. Entrambe le proiezioni sono a ingresso libero.
Il
lungometraggio che presenteranno i ragazzi dell’Alvaro-Gobetti il 10 novembresarà Simple Simondi Andreas
Öhman che tratta di un rapporto fraterno segnato dall’autismo. Asserisce Valentina
Noya dell’AMNC, coordinatrice delle classi di Mirafiori insieme a Vittorio
Sclaverani: “la scelta è ricaduta su questo film viste le tematiche a
cui gli studenti si sono mostrati sensibili e il fatto che si tratti di un film
generazionale che parla anche di relazioni familiari: uno dei temi topici
emersi dal questionario a domande aperte di fine percorso, ma anche dalle
discussioni in aula”.
“Con
le classi della scuola media G.B. Viotti che hanno aderito al progetto Ragazzi in Città, – dichiarano Silvia Nugara
e Claudio Panella dell’Unione culturale – abbiamo seguito un percorso
che ci ha portato a trattare temi a loro molto vicini come la migrazione, il
multilinguismo, le passioni, i sogni per il futuro e il rapporto con la città
attraverso la visione di cortometraggi recenti di diverso tipo (d’animazione, a
soggetto, documentari). Il percorso si è arricchito grazie all’intervento del
regista italo-srilankese Suranga D. Katugampala che ha raccontato il suo
itinerario biografico e cinematografico con l’ausilio di vari materiali
audiovisivi. Le classi hanno partecipato con attenzione e curiosità agli
incontri, scoprendo prodotti cinematografici per loro nuovi e rivelandosi
disponibili ad accoglierli. Come ci ha detto uno degli insegnanti coinvolti,
“è importante essere esigenti e avere il coraggio di sollecitare gli
studenti con proposte diverse da quelle a cui sono abituati e che altrimenti
potrebbero non conoscere mai; e noi rischieremmo di ignorare che le loro reazioni
possono anche essere molto positive”.
Ragazzi
in Città è un percorso di visioni e riflessioni incentrato
su come preadolescenti e adolescenti vivono e attraversano zone periferiche dal
punto di vista urbanistico, ma che possono riscoprirsi ‘centrali’ se oggetto di
attenzione particolare da parte di iniziative culturali, istituzioni e
cittadinanza. Il progetto è curato dall’Associazione Museo Nazionale del
Cinema e dall’Unione culturale Franco
Antonicelli ed è realizzato grazie al sostegno del Miur e del MiBAC
nell’ambito della prima edizione del bando nazionale Cinema per la Scuola
e gode del patrocinio della Città di Torino, della Circoscrizione 2
e della Circoscrizione 6.
Simple Simon di Andreas
Öhman (Svezia 2010, 85’, v.o. sott. it.)
Simon, 18 anni, ha la Sindrome di Asperger. A causa
di questo disturbo, per far funzionare la sua vita, ha bisogno di strutture
sicure e schemi prevedibili assicurategli da Sam, il fratello maggiore, che si
è sempre preso cura di lui. Questa vita controllata e metodica è però
d’improvviso sconvolta quando Sam viene lasciato dalla fidanzata, portando il
giovane a essere distante e a volte distratto. Per riportare tutto alla
“normalità”, Simon, che non comprende appieno meccanismi dell’amore e delle
emozioni, decide allora di mettersi alla ricerca di una nuova ragazza per Sam.
Il film sarà film introdotto dagli studenti della scuola Alvaro-Gobetti
Domenica 17 novembre ore 16,30 (Giornata internazionale degli studenti)
Laboratori di Barriera, Via Baltea 3, Torino
Quasi
amici
di Eric Toledano e Olivier Nakache (Intouchables,
Francia 2011, 112’)
Driss è un ragazzo cresciuto in una periferia di Parigi, ma la
sua ultima residenza è stata un carcere. Il ricco aristocratico Philippe si è
ritrovato su una sedia a rotelle dopo un incidente di parapendio e la sua vita
non può più essere così indipendente com’era. Queste due vite destinate a
scorrere distanti un giorno si incontrano perché Driss, in cerca di un lavoro,
viene assunto come badante personale di Philippe. All’inizio sono scintille
perché i due non potrebbero essere più diversi per storia, ceto sociale,
abitudini e maniere ma piano piano si stringe un legame che cambierà entrambi. Quasi amici è la storia di un’amicizia tanto inaspettata quanto profonda,
raccontata nei toni di una commedia piena di speranza e vitalità. Il film sarà film introdotto dagli studenti della scuolaG.B.
Viotti.
Home Movie Day and Night: la maratona di 24 ore di film di famiglia è un evento unico e innovativo, un webcast che si svolgerà dal 27 al 28 ottobre 2019 in occasione della Giornata mondiale del patrimonio audiovisivo.
Un giro del mondo attraverso gli home movies, una intera giornata di film di famiglia trasmessa in diretta su YouTube dalla pagina ufficiale del Center for Home Movies e su Facebook. I partecipanti alla maratona hanno selezionato immagini che possano, in maniera intima ma allo stesso tempo universale, raccontare la cultura del paese di origine. Un viaggio nello spazio e nel tempo, un mosaico di storie, luoghi e persone con un unico fil rouge: esplorare il concetto di “casa” in senso fisico, come stato d’animo e ricordo intimo, per ricordarci che siamo tutti diversi, ma in fondo tutti uguali.
Anche Superottimisti partecipa alla Maratona, insieme a decine di altri archivi sparsi in ogni angolo del globo.
Ecco il programma integrale di LiberAzioni 2019, il festival delle arti dentro e fuori che si svolgerà dal 14 al 20 ottobre con eventi nel centro di Torino e nel quartiere delle Vallette!
Lunedì 14 ottobre
h 17.30 Bibliomediateca della RAI Dino Villani, Via Giuseppe Verdi 31
ARCHIVE
ALIVE! DENTRO/FUORI
Proiezione
di uno speciale su Armando Punzo e la Compagnia della Fortezza di Volterra.
Intervengono la direttrice del Festival LiberAzioni Valentina Noya, il presidente di Antigone Piemonte Claudio Sarzotti e Filippo Cropanese dell’associazione partner Quinto Polo.
L’ingresso è gratuito con prenotazione obbligatoria: 011.8104858 – mediateca.torino@rai.it
h 20.45 Unione culturale
Franco Antonicelli, Via Cesare Battisti 4/B
PAROLE CHE LIBERANO.
ESPERIENZE DI SCRITTURA IN CARCERE
Un confronto a più voci a partire dall’esperienza di chi ha condotto alcuni laboratori in diversi penitenziari italiani, per ragionare su come è possibile raccontarsi tramite la scrittura, la parola o anche il teatro in ambito carcerario; ne discutono insieme Benedetta Centovalli, Alessio Romano e Susanna Ronconi
Martedì 15 ottobre
h 18.00 Laadan – Centro culturale e sociale delle
donne, Via Vanchiglia 3
DONNE RECLUSE. ESPRIMERE LA FORZA, ESPRIMERE LA
BELLEZZA. DIALOGHI, NARRAZIONI E IMMAGINI SULLA DETENZIONE FEMMINILE.
Al Femminile (Rio
Terà dei Pensieri), laboratorio fotografico al carcere della Giudecca, Venezia
(con Giorgio Bombieri e Liri Longo), Io sono tante
(SaperePlurale-LiberAzioni) e Il tesoro nascosto (Società della
Ragione-Progetto WIT), interventi autobiografici nelle sezioni femminili a
Pisa, Firenze e Torino.
Intervengono Liz O’Neill, Rosetta D’Ursi e Susanna
Ronconi
A seguire aperitivo!
Mercoledì
16 ottobre
h
18.30 Palazzo Barolo, via Corte d’Appello 20/C, Via delle Orfane 7
Inaugurazione
della mostra OLTRE.
Tra dentro e fuori.
Oltre il pregiudizio e lo stereotipo, oltre
le sbarre e la limitazione dello spazio, oltre le proprie capacità e l’immagine
che si ha di se stessi.
Oltre porta fuori dal
Carcere di Torino i lavori dei detenuti della sezione Sanitaria Prometeo e di
quella di Alta Sicurezza che hanno svolto, parallelamente, i workshop di
fotografia con Francesca De Dominicis e di disegno con Petra Probst e Jhafis
Quintero.
L’esposizione rompe i muri della cella e
mette in intima relazione lo spettatore e i detenuti che attraverso gli scatti
e i lavori di grafica si mettono a nudo svelando se stessi, la loro personale
esperienza del carcere e il loro modo di guardare dentro
e fuori.
La mostra è curata da Elena Patrignani, in collaborazione con Forme in Bilico, Rasha Shokair, Valentina Noya e Nuova Icona di Venezia. La mostra rimane aperta fino al 17 novembre.
Giovedì 17 ottobre
h 16 Palazzo Barolo, via Corte d’Appello 20/C, Via delle Orfane 7
Visita degli studenti universitari di Sociologia del Diritto con la Garante delle persone private della libertà del Comune di Torino, Monica Cristina Gallo e con i curatori; presentazione della rivista Inoltre gli occhi del carcere di San Vittore a Milano, diretta da Renata Discacciati.
h
18.00 Lacumbia film, Via Tesso 30
Anteprima
del cortometraggio Sacro ardente cuore scaturito dal laboratorio
di video partecipativo di LiberAzioni nella sezione Prometeo dei detenuti
sieropositivi del carcere di Torino. Intervengono i formatori Giovanni
Mauriello e Beatrice Surano.
h 20.30 Teatro Don Orione, Piazza Montale 18
PRIMA SESSIONE DI CORTOMETRAGGI IN CONCORSO
La madre e il suo principe di Roberto Agagliate (2019, 12′)
Fame di Luca Buzzi Reschini (2019, 10′)
Tenera è la notte di Sabrina Bonaiti e Marco
Ongania (2019, 30′)
Wherever you go,
there you are di Nicola Zambelli
(2018, 28′)
Note a margine di Lorenzo Bombara (2019, 20′)
Voci di dentro di Lucio Laugelli (2018, 20′)
Salviamo la faccia di Giulia Merenda (2018, 13′)
FESTIVAL IN CARCERE E NEL QUARTIERE DELLE VALLETTE
Venerdì 18 ottobre
h 9.00 Casa Circondariale Lorusso e Cutugno, Via Maria Adelaide
Aglietta 35
Paolo Rossi inaugura il festival per i detenuti nella sala del teatro del carcere.
h 21.00 Teatro Don Orione, Piazza Montale 18
Spettacolo di Paolo Rossi aperto al pubblico, non occorre prenotare
Sabato 19 ottobre
h 10.00 Campus Luigi Einaudi, Lungo Dora Siena 100/A
Convegno LA PENA DOPO LA PENA
Quali sono i limiti della pena? Una domanda resa
necessaria dai tanti e crescenti episodi nei quali persone condannate, dopo
aver espiato la condanna ed essere tornate libere, anche a distanza di molti
anni, hanno subito ostracismi di varia natura e intensità nel loro percorso
sociale. Come se la pena dovesse produrre effetti senza fine, come se lo stigma
nei confronti del reo dovesse rimanere per sempre e pre-giudicare il suo
reinserimento sociale. Come se l’ex detenuto, e così pure il recluso sottoposto
a misure alternative, dovessero in qualche misura diventare e rimanere
all’infinito cittadini dimezzati. Che ruolo hanno i media e gli operatori penitenziari
e del diritto in questo processo? Che ruolo possono avere i Garanti dei
detenuti?
Attorno a queste domande si interrogheranno Emilia
Rossi, Garante nazionale delle persone private della libertà, il
giornalista Davide Demichelis, Susanna Ronconi, associazione
SaperePlurale, Sergio Segio, associazione Società INformazione.
Modera Claudio Sarzotti, presidente di
Antigone Piemonte, professore ordinario di Sociologia del
Diritto presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino. Saluti istituzionali di Monica Cristina Gallo,
Garante delle persone private della libertà del Comune di Torino.
Interverrà con letture l’attrice e regista Clara Galante.
h 15.30 Teatro Don Orione, Piazza Montale 18
SECONDA
SESSIONE DI CORTOMETRAGGI IN CONCORSO
Quando
è primaveradi
Silvia Luciani (2019, 20′)
Il
legionario
di Hleb Papou (2018, 13′)
Sì,
viaggiare
di Mattia Berto (2019, 28′)
Il
nostro concerto
di Francesco Piras (2019, 15′)
Andrà tutto bene di Luca Angeletti (2018, 15′)
h 18.00 Teatro Don Orione, Piazza Montale 18
Roberto Manfredi, scrittore, musicista, produttore e
sceneggiatore televisivo, a partire dal suo libro Artisti
in galera (Skira edizioni) racconterà storie di cantanti e
musicisti famosi finiti in carcere, con video, interviste e aneddoti.
A seguire reading dei racconti finalisti del concorso nazionale di scrittura per detenute/i Io sono tante/i a cura di SaperePlurale e Quinto Polo.
H 20.45 Teatro Don Orione, Piazza Montale 18
Spettacolo teatrale “La classe” della compagnia Voci Erranti dei detenuti di Saluzzo, regia di Grazia Isoardi
Domenica 20 ottobre
Teatro Don Orione, Piazza Montale 18
h 17.00 intervista di Sergio Segio e Andrea Perrone a Omar Pedrini sul suo libro Cane sciolto di Federico Scarioni, Chinaski edizioni
h 18.00 spettacolo teatrale di Clara Galante Una vita o prove di liberazione, ispirato a Pensieri dal carcere di Pierre Clèmenti
h 20.00 Teatro Don Orione, Piazza Montale 18
TERZA
SESSIONE DI CORTOMETRAGGI IN CONCORSO
Malo
tempo
di Tommaso Perfetti (2018, 20′)
Dall’alba
al tramonto di
Vincenzo Ardito (2019, 27′)
Una
vita negata
di Martino Pavone (2019, 1′)
Et
in terra pacis
di Mattia Epifani (2018, 26′)
Time to change di Maryam Rahimi (2018, 15′)
A
seguire, premiazioni ufficiali dei concorsi di cinema e scrittura, con
intervalli musicali di Omar Pedrini e premiazione del vincitore del
contest.
Re-framing home movies #3 / Residenze in
archivio è un percorso di formazione e produzione
volto alla creazione di sei nuove opere creative interamente realizzate a
partire da materiali filmici amatoriali.
Il progetto, promosso da Cineteca
Sarda / Società Umanitaria (Cagliari), Archivio
Cinescatti / Lab 80 film (Bergamo), e Archivio
Superottimisti (Torino), curato da Karianne Fiorini e Gianmarco Torri, è
realizzato con il sostegno di MiBACT
e di SIAE, nell’ambito del programma
“Per chi crea”, e prevede un lavoro di rielaborazione artistica di film di famiglia messi a disposizione
dalle tre strutture.
Un
giacimento di film di origine privata, girati in pellicola nei formati 9,5 Pathé Baby, 16mm, 8mm, Super8 tra
gli anni ’20 e gli anni ’90 del secolo scorso da cineamatori e cineamatrici che
hanno impugnato la cinepresa e documentato il loro quotidiano nel corso del
Novecento.
Una
preziosa eredità di memoria collettiva per guardare alla società italiana da
un’ottica microsociale e ad altezza
d’uomo che, per la sua specificità, necessita di un lavoro propedeutico di
analisi e approfondimento che ne faccia emergere le peculiarità storiche,
tecniche e culturali e ne sveli compiutamente le potenzialità espressive.
I partecipanti, attraverso masterclass, momenti di workshop e un periodo di ricerche individuali in archivio avranno la possibilità di riflettere sulle caratteristiche specifiche di queste immagini private e sulle diverse modalità di rielaborazione per produrre nuove opere che ne forniscano una lettura personale e originale.
Il
bando di partecipazione è aperto a giovani
artisti, filmmaker, studiosi e archivisti under 35, residenti in Italia, e
prevede la selezione di 6 candidati, che lavoreranno a stretto contatto con i
curatori del progetto e gli archivi promotori.
Per
partecipare alla selezione si prega di compilare l’apposito form sul sito www.reframinghomemovies.it entro il 31 ottobre 2019 allegando il
proprio CV, una lettera di motivazione e un portfolio
di lavori già realizzati.
Per
la partecipazione è indispensabile una buona
conoscenza della lingua inglese e una completa autonomia per la realizzazione
delle opere finali.
Alla fase di preselezione seguirà un colloquio individuale e la selezione finale sarà comunicata entro il 15 novembre 2019.
Nel sottoporre la propria candidatura si richiede a ognuno dei partecipanti l’impegno a partecipare all’intero percorso.
Quattro lunedì, quattro film su Torino, per raccontare il rapporto fra il capoluogo piemontese e la fabbrica: è questo il programma di C’era una volta a Torino – I film raccontano, rassegna curata da Associazione Museo Nazionale del Cinema e ospitata da Volere la luna, in via Trivero 16, a partire da lunedì 23 settembre.
Ettore Scola, Mario Monicelli, Armando Ceste, Pier Milanese e Pietro Perotti sono gli autori prescelti: si comincia con la versione restaurata Trevico-Torino, il film di Scola introdotto da Edoardo Peretti e Diego Novelli. Nell’occasione verrà presentato “Diego Novelli e il cinema“, il libro scritto da Carlo Griseri e Fabrizio Dividi.
Lunedì 30 settembre Vittorio Sclaverani introdurrà Fiatamlet di Armando Ceste, mentre lunedì 7 ottobre sarà Steve Della Casa a raccontare I compagni di Mario Monicelli.
Chiusura lunedì 21 ottobre con Senzachiederepermesso di Pier Milanese e Pietro Perotti, introdotto da Marco Revelli.
La serata inizia alle ore
20, anticipata di un’ora da una merenda sinoira per cui è necessaria la prenotazione telefonando ai numeri
339.1250127 o 338.1342707.
Superottimisti è al Piccolo Museo del Diario! qui alcune foto dell’inaugurazione di “3 Women in a Triptych” di Line Kühl e Giulia Ottaviano.
Una delicata e profonda video-installazione sulla storia di tre donne e i loro segreti co-prodotta anche da Superottimisti e Polo del ‘900 all’interno del progetto Something about you.
Il film di AMNC, prodotto da Valentina Noya con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte, è l’unica opera italiana selezionata nell’ambito di Venice Virtual Reality – 76a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica
L’Associazione
Museo Nazionale del Cinema (AMNC) sbarca al Lido di Venezia con il film VR
Free (We are free)di Milad Tangshir, prodotto da Valentina Noya e realizzato con il
sostegno di Film Commission Torino
Piemonte grazie al bando Under35
Digital Video Contest. Unico film italiano
selezionato nell’ambito di Venice
Virtual Reality – 76a Mostra
Internazionale d’Arte Cinematografica, VR
Free è un’esplorazione immersiva negli spazi della detenzione. Girato
interamente tra le mura del carcere di Torino sarà in programma per il pubblico
dal 29 agosto al 7 settembre in
visione VR con diverse modalità di fruizione e anche per singolo spettatore su
prenotazione, sull’isola del Lazzaretto Vecchio.
VR Free
(We Are Free)
è un documentario girato con la nuova
tecnologia della realtà virtuale (VR) che pone lo sguardo sulla natura
degli spazi della detenzione descrivendo alcuni momenti di vita all’interno
della Casa circondariale Lorusso e
Cutugno di Torino. Il film raccoglie la reazione di alcuni detenuti durante
il loro breve incontro con video 360° che mostrano la vita fuori dal carcere.
Usando i visori VR e le cuffie, i reclusi, privati temporaneamente della loro
libertà, hanno virtualmente potuto partecipare ad alcune situazioni pubbliche e
intime che non possono più vivere, come una partita di serie A allo stadio, una
festa in discoteca il sabato sera, un’immersione sottomarina, l’incontro con la
propria famiglia in un parco pubblico.
“VR Free
è il tentativo di portare l’universo poco conosciuto del carcere sotto gli
occhi del pubblico, – dichiara il regista Milad Tangshir – ma anche un
invito a partecipare in forma più consapevole all’urgente discussione sui
nostri spazi di detenzione. Finora la differenza più significativa tra VR e
video ‘normali’ (flat film) è la sua potenzialità nel restituire un forte senso
di immersione, è uno strumento potente per affrontare il concetto di spazio. Vi
è una crescente tendenza a utilizzare la realtà virtuale per raccontare
l’impatto sociale di alcuni progetti. Offrire nuove modalità per esplorare la
cultura e l’identità, può aiutarci a superare alcune carenze e creare
un’opportunità per una maggiore comprensione. Nessun cambiamento significativo
può avvenire senza prima costruire una nuova narrativa pubblica. VR Free cerca di usare il mezzo VR per spingere e
condividere un dialogo tra dentro e fuori il carcere.Oltre allo staff
dell’AMNC ho avuto la fortuna di lavorare con importanti professionisti come Stefano Sburlati (fotografia e post produzione) e Vito Martinelli che con la sua
esperienza ha condotto un importante lavoro sull’audio.”
“I limiti imposti dall’esperienza della reclusione – prosegue Valentina
Noya produttrice del film con l’AMNC
– non hanno solo conseguenze
psicologiche ed emotive, ma anche fisiche. Basti pensare che, per il fatto di
non poter osservare orizzonti o punti lontani, la vista dei detenuti è spesso
soggetta a rapidi peggioramenti. Per questo, sperimentare anche solo
virtualmente e per pochi minuti la sensazione di una vita “chiusa” può davvero
aiutare il pubblico dei liberi a comprendere meglio il significato della
detenzione. VR Free si inserisce
idealmente nel contesto delle iniziative che l’AMNC cura da anni intorno alle
questioni carcerarie: su tutti LiberAzioni – festival delle arti dentro
e fuori, un complesso di iniziative,
anche laboratoriali, volte a creare un dialogo tra interno ed esterno del
carcere grazie all’arte che culminerà nel suo apice festivaliero per la sua
seconda edizione a Torino tra il 14 e il 20 ottobre 2019. Durante la prima
edizione del Festival Milad Tangshir vinse il premio “Diritti Globali” con il
documentario Displaced che racconta
il drammatico viaggio dei migranti, in particolare dalla prospettiva dei più
piccoli, sulla rotta balcanica.”
“Siamo molto orgogliosi di aver
contribuito alla realizzazione di questo progetto, capace di raggiungere al
meglio i risultati che ci eravamo prefissi con il Bando “Under 35
Digital Video Contest – Giovani protagonisti”, ideato per sostenere opere
crossmediali e transmediali
particolarmente legate alle tecnologie emergenti come Realtà Aumentata, Realtà
Virtuale e contenuti immersivi. Così
il Direttore di Film Commission Torino Piemonte Paolo Manera commenta la
presenza di VR Free a Venezia 76, aggiungendo che “Milad Tangshir si fa portavoce, grazie a VR Free, di una nuova
generazione di filmakers e creativi in grado di raccontare il presente con uno
sguardo inedito e attraverso la sperimentazione tecnologica.”
“L’Associazione Museo Nazionale
del Cinema ha già avuto un piccolo incontro con Venezia quando nel 2013 –
ricorda Vittorio Sclaverani,
Presidente dell’AMNC – per la 70a
edizione della Mostra, Alberto Barbera chiese a 70 registi da tutto il mondo di
confrontarsi sul futuro del cinema. Tra questi anche Davide Ferrario che chiese
la nostra collaborazione per realizzare Lighthouse episodio di Venezia 70 Future Reloaded; in quell’occasione Ferrario filmò una delle nostre proiezioni
periferiche raccontando come siano necessari davvero pochi elementi per
condividere ovunque la passione per il cinema. Essere oggi in concorso nella
sezione VR, con una produzione indipendente, è un traguardo importante che dà
valore al nostro lavoro quotidiano sul territorio, a partire dai molteplici
progetti culturali d’inclusione
Caterina Taricano, Direttrice della rivista dell’AMNC “Mondo Niovo 18/24 ft-s”, ricorda Giorgio Arlorio, eclettico uomo di cinema che ci ha lasciato ieri all’età di 90 anni.
“L’edizione 2018 del Premio Maria Adriana Prolo è stata particolarmente emozionante per me. A ricevere il premio, insieme a Pietro Perotti, è stato infatti Giorgio Arlorio, con il quale ho avuto il privilegio di scrivere un libro. Un libro che parla di cinema, ma in cui il cinema stesso è un pretesto perparlare d’altro, o meglio, per raccontare quanto sia indispensabile al cinema l’esperienza della vita. E Giorgio la vita l’amava follemente, era un curioso, uno che non aveva paura di provare, che andava orgoglioso del fatto che non si smette mai di imparare. Lui amava definirsi infatti un “ragazzo di bottega” (formatosi in quella straordinaria bottega rinascimentale che era il cinema italiano degli anni Cinquanta, che lo aveva accolto da ragazzo, quando da Torino era partito alla volta di Roma senza sapere esattamente cosa avrebbe fatto in quel mondo così lontano dalla sua realtà ma così tanto affascinante) non gli piaceva stare dietro la cattedra, anche se ci è stato per più di vent’anni quando ha insegnato al Centro Sperimentale.
Gli piaceva sporcarsi le mani insieme ai suoi studenti, pensare con loro e non al posto loro. E tutti i suoi allievi di questo gli sono stati grati, da quelli che hanno scelto il cinema come mestiere, a quelli che poi hanno scelto altro, ripagandolo però con lo stesso affetto. Perché a Giorgio non si poteva non voler bene. Perché di Giorgio si diventava subito allievi e nello stesso tempo amici. Giorgio era un vero AFFETTIVO, una persona che amava le persone… “il più bel lavoro che ho fatto nel cinema non è stato quello di sceneggiatore, ma quello di aiuto regista – mi diceva sempre – perché mi ha permesso di fare quello che mi piace di più in assoluto, ascoltare la gente”. Ma dopo qualche minuto con lui capivi subito che era anche un gran chiacchierone, che gli piaceva parlare, che non avrebbe mai smesso.
Ti raccontava nei dettagli anche i libri che leggeva (e credo proprio che non vorrò mai leggerli quei libri, per ricordarmeli così, con le sue parole). Questa curiosità, questo amore per la vita, per le persone, che si traduceva in un’energia inesauribile, è stata quella che gli ha permesso di attraversare anche il cinema senza paura di mettersi in gioco, senza l’ansia di primeggiare, perché “l’invidia – diceva – fa sparire la creatività”. Lui invece la creatività l’ha sempre messa al servizio di ciò che faceva, amando profondamente quella dimensione collettiva che è parte fondamentale dell’arte cinematografica, che poi è stato anche il suo modo per fare politica col suo lavoro. Giorgio ha sempre rifuggito l’immagine dell’artista solitario in preda al furore creativo, all’”io” lui ha sempre preferito il “noi”. E proprio per questo Giorgio mi mancherai moltissimo”.
L’AMNC vuole ricordare insieme alla comunità del cinema italiano la scomparsa del grande regista Ugo Gregoretti. Nel 2006 Gregoretti ha ricevuto il Premio Maria Adriana Prolo alla Carriera nell’ambito del Festival Internazionale A. Lavagnino – Sezione Cinema di Gavi. Per l’occasione ripubblichiamo una generosa e ironica intervista che ha rilasciato per il numero 78 di “Mondo Niovo 18/24 ft-s” uscito nell’aprile del 2007.
Abbiamo incontrato Ugo Gregoretti durante il Festival Internazionale A. F. Lavagnino Gavi musica e cinema 2006, dove gli è stato conferito il premio dell’Associazione Museo Nazionale del Cinema, Maria Adriana Prolo alla carriera. È stata un’occasione per parlare del suo cinema e di temi a lui ed a noi cari come la fabbrica e il mondo operaio. Ugo Gregoretti, con l’umiltà e l’ironia che lo contraddistinguono, ci ha raccontato i suoi esordi e le sue vicissitudini.
Negli anni in cui tutti gridano al miracolo di fronte ai risultati che l’industria italiana stava ottenendo, lei scopre il luogo simbolo del cambiamento, “la fabbrica”. Come avviene questa scoperta?
La scoperta della fabbrica nasce di fatto col mio primo film, I nuovi angeli. Era un titolo metaforico che si riferiva ai ventenni di quell’anno, il 1960-61, all’apice del cosiddetto boom economico. Ricevetti la proposta di fare una specie di film-inchiesta sulla realtà giovanile colta in diverse ambientazioni sociali e culturali. Il film non aveva sceneggiatura, improvvisavo giungendo sui luoghi, per esempio una fabbrica di Milano che era la Innocenti e produceva un’utilitaria che allora stava avendo molto successo, la tipica macchina da boom economico, da miracolo italiano. Arrivavo con la mia troupe, facevamo interviste preparatorie, ci facevamo raccontare le cose, buttavamo giù dei dialoghi e loro li imparavano, per quanto in modo sommario. Ripetevano queste cose davanti alla macchina da presa raggiungendo abbastanza rapidamente un buon livello di naturalezza: così nacque il film; gli attori erano gli stessi protagonisti della realtà.
Lei non si limitò a scoprire la fabbrica, ne approfondì anche gli aspetti meno piacevoli, i metodi di produzione, la realtà operaia, le condizioni di vita dei lavoratori dentro e fuori dell’orario di lavoro. Un ritratto che poteva danneggiare l’immagine dell’industria. Come ottenne il permesso di girare negli stabilimenti della Innocenti?
L’ottenni dal proprietario, per il fortunatissimo accidente di essere stato suo compagno di scuola tanti anni prima. Girammo nello stabilimento di Lambrate dove si produceva la macchina e dove io feci una specie di radiografia analitica della catena di montaggio, di qual era il rapporto tra i lavoratori e questo fiume produttivocostruttivo che scorreva davanti a loro e nel quale intervenivano nel settore specifico di loro competenza, aggiungendo magari quattro bulloni o dando una ritoccata qua e là. Le macchine partivano dal settore se vogliamo più metallurgico, dove si forgiavano le carrozzerie e c’erano le grandi presse; con una terminologia idrogeografica tipicamente fluviale, i vari tratti di questo lungo percorso venivano definiti con denominazioni tipiche di un fiume, come “a monte” e “a valle”. Se per esempio tra “monte” e “valle” si incontrava qualche ostacolo, tutto si fermava. Posso ricostruire un episodio reale di quando, in un giorno qualunque di lavoro, si bloccò la catena di montaggio perché in verniciatura gli sportellini del cruscotto a ribalta arrivavano con una martellata in più e quindi con un affossamento della lamiera; non si poteva procedere con la verniciatura né poi con le rifiniture, che venivano raccolte sotto la denominazione sartoriale di “reparto abbigliamento vetture”. Si fece un’indagine rapidissima che mobilitò tutti i capi reparto e si venne a scoprire che dove si davano queste martellate c’era un operaio di cattivo umore, non pienamente padrone del controllo di ciò che faceva e quindi più generoso in martellate. L’operaio era di cattivo umore perché il capo officina (un vecchio operaio lombardo, grintoso e autoritario) lo aveva sgridato, gli aveva rivolto un rimprovero pesante che il giovanotto non si era meritato, e quindi sfogava il proprio dispetto aumentando il numero dei colpi, bloccando involontariamente e inconsapevolmente la catena. Raccontai questa storia usando i veri operai della Innocenti. Per I nuovi angeli, la realtà che veramente mi era ignota finché non realizzai il pezzo dalla fabbrica era appunto la realtà operaia; del mondo contadino sapevo abbastanza, come tutti, se non altro perché da bambino venivo portato in villeggiatura in collina, nei paesi d’Abruzzo. Avevo visto le capre, le mucche, i pastori; le frese, i torni, gli operai mai. Mi parvero un aspetto della realtà italiana di estremo interesse, sicuramente nuovo per il cinema o quasi. Credo che prima de I nuovi angeli, probabilmente, non fosse mai entrata in una fabbrica una macchina da presa con una finalità di tipo narrativo, o forse sì ma un po’ di straforo. Non bisogna dimenticare che il cinema italiano prima che italiano era romano; era un cinema di denuncia, in certi casi anche di impianto marxista. I nostri autori conoscevano molto bene la pastorizia o la viticoltura, ma la vita di un’azienda metalmeccanica no, perché a Roma non c’erano le fabbriche. Quando Roma divenne capitale d’Italia fu teorizzato che non si dovesse creare una cintura operaia di fabbriche periferiche come in tutte le metropoli, perché gli operai erano pericolosi, portavano disordine, portavano parole d’ordine rivoluzionarie… niente operai a Roma, e infatti li andai a cercare a Milano. Scoperti gli operai con I nuovi angeli, cercai di approfondire questa realtà per me nuova anche con delle letture, e tra queste capitò un’inchiesta sulla Fiat che era stata pubblicata da “Nuovi Argomenti”, la rivista di Moravia e Carocci, che sembrava un romanzo. Era la storia di come il sindacato dei metalmeccanici – allora si diceva “il sindacato di classe” –, la Fiom, perse le elezioni ad opera, di fatto, della costituzione di un sindacato anti-sindacalista, anti-sindacale, soprattutto anti-politico. Era il famoso “sindacato giallo” che la Fiat contrappose ai sindacati ideologici, puntando sulla solidarietà nei confronti dell’azienda di tutto uno strato di lavoratori che non erano operai da catena ma piccoli capetti, o coloro che si trovavano in altri settori più orientati verso l’obiettivo del “colletto bianco”. Senza essere spinti da sentimenti unitari o unitaristici nei confronti della massa dei lavoratori, riuscirono a mandare in minoranza all’interno dell’azienda i sindacati storici e, per un certo numero di anni, la Fiat fu tranquilla; poi vennero il 1962 e infine il 1968 e di colpo riprese a ribollire. L’inchiesta raccontava come era avvenuta la guerra interna alla Fiat: gli anni in cui l’azienda creò la propria polizia privata extraterritoriale, che lavorava all’interno dell’azienda.
Il suo film d’esordio ebbe un grande successo. Questo l’aiutò nella realizzazione del secondo?
Forse anche troppo; non bisogna mai avere un esagerato successo all’esordio, perché dopo tutti si aspettano qualche cosa in più, a partire dall’autore, e quindi l’infortunio di un film non riuscito o comunque non capito, come generalmente accade per il secondo film, lo vissi anche io con Omicron. Avendo fino ad allora lavorato solo nel settore del documentario e del reportage televisivo, dopo I nuovi angeli volevo confermare la mia affermazione di “regista di cinema” ed ero pronto per fare un nuovo film. Generalmente a quei tempi, se andava bene, l’autore non faticava a trovare opportunità per fare l’opera seconda, che fu appunto Omicron.
Cosa la spinse a raccontare nuovamente la realtà operaia in un secondo film?
Questo argomento mi affascinò e mi parve degno di diventare materia di un secondo film. Volevo ricostruire lo scontro tra classe operaia e padronato all’interno della grande fabbrica e nello stesso tempo fare un film divertente, essendo la mia vocazione più quella del comico, del satirico, dell’ironico, dell’umoristico che dir si voglia. Con Franco Cristaldi, il famoso produttore che voleva farmi fare il secondo film e al quale avevo proposto la materia della lotta operaia nella grande fabbrica, stabilimmo che dovesse essere anche un film divertente, pur essendo tanto drammatico il contenuto, e senza togliere niente alla serietà dell’analisi. La terza via aggiuntiva fu quella di fare un film che fosse anche di fantascienza. In Italia il cinema di fantascienza non c’era, o meglio c’erano i trucchi di Bava che erano gustosi ma erano tutt’altra cosa, io volevo ispirarmi a L’invasione degli ultracorpi, che era un po’ il mio punto di riferimento. Scrissi il soggetto, scrissi il trattamento, che fu approvato, scrissi la sceneggiatura; feci tutto da solo, il che può essere anche un rischio, ma ho sempre avuto la fissazione, per quello che attiene ai miei lavori cinematografici, di scrivermi da solo anche la sceneggiatura, di non limitarmi a girare il film ma pensarlo, immaginarlo, metterlo sulla pagina, modificarlo anche in corso d’opera non dovendo rendere conto di questa modifica più o meno a nessuno, essendone l’autore integrale, egemonico. Il film partì, però occorreva una base organizzativa, dovevamo trovare una fabbrica importante; è chiaro che in fase di elaborazione avevo in mente la Fiat, ma della Fiat io non sapevo nulla, sapevo che l’Avvocato Agnelli aveva visto I nuovi angeli e si era divertito, nutriva una certa simpatia nei miei confronti, pur non conoscendomi personalmente. Un giorno andai da Cristaldi e gli dissi che ci avrei provato, che avrei portato il copione alla Fiat. Ero convinto che i capi fossero una massa di sciocchi: “Magari non si accorgeranno nemmeno che questo film è fortemente critico nei confronti della fabbrica di stampo tayloristico-fordiano e me lo faranno fare. Ti rendi conto di come sarebbe bello girare lì dentro?”. Mi guardarono come se fossi un pazzo concedendomi di provare: “Facciamo questa spesa” e mi mandarono a Torino.
A proposito di questo episodio, l’Archivio Storico Fiat conserva dei documenti che mostrano un grande interesse verso il suo lavoro ed è esplicativo del clima che si respirava all’epoca. Si tratta dei Diari di Direzione Stampa e Propaganda, una sorta di diario di bordo redatto tra il 1946 e il 1970 da Gino Pestelli, in cui venivano annotate rassegna stampa internazionale, verbali delle riunioni e tutte quelle notizie utili per capire l’andamento dell’opinione pubblica e ciò che la influenzava. «La Fiat e i film di spettacolo […] Critica negativa, invece (a cominciare da “La Stampa” e dal “Corriere della Sera”), ha segnato l’insuccesso dal punto di vista artistico del film Omicron di Ugo Gregoretti. In verità si tratta di un pasticcio tra fantascienza e satira sociale sul lavoro nella grande industria moderna in toni alquanto sinistrorsi, classisti. “Flebile scherzo presuntuosetto”, ha scritto il critico del “Corriere”. È quel che noi subodorammo respingendo, nel marzo scorso, la proposta Gregoretti (che ci mandò il soggetto) di ambientare il suo nuovo film nella Fiat. Gli scrivemmo francamente che un tale soggetto, con un tale andamento e scene ardite, non si addice al nostro ambiente di lavoro, nemmeno come sfondo alla larga e senza riferimenti specifici.. Dopo la nostra risposta il regista non si è fatto più vivo con noi. 3 Non abbiamo ancora visto il film; ma da quanto se n’è letto sui giornali il riferimento “ad una grande azienda del Nord”, a Torino, appare intenzionalmente evidente, senza che sia nominata la Fiat. Ugo Gregoretti è un giovane regista affermatosi alla TV con Controfagotto e nel cinema con il film Nuovi Angeli. Le offerte, le proposte alla Fiat di ambientare film di spettacolo nei nostri ambienti di lavoro sono frequenti, tanto da parte di registi quotatissimi che di novellini. Ma bisogna stare molto attenti nel considerarle e quasi sempre dobbiamo respingerle, perché i casi sono due: o si tratta di inscenare nell’officina vicende romanzesche qualunque, il che riesce generalmente superfluo od equivoco; ovvero di accreditare tesi politico-sociali ostili lasciando “girare” alla Fiat. Anche il cinema italiano va volentieri socialmente a sinistra. Alla “nouvelle vague” i soggetti di satira sul lavoro industriale sono prediletti, e questo Omicron Gregoretti ne è un esempio. Ma per lo più sono registi ancora fissati, in tal genere di film, sulla maniera René Clair e di Chaplin […], senza averne l’arte. Nei film di spettacolo, quando valgano, il meglio che noi possiamo fare è di ottenere che vi figurino bene vetture Fiat. È ciò che facciamo ogni volta che possiamo» .
Ricordo che arrivai a Torino e contattai il capo dell’ufficio stampa, Gino Pestelli, un toscano simpatico e intelligente; gli dissi chi ero, ormai ero diventato relativamente famoso, e mi invitò a portare la sceneggiatura nel suo ufficio. Mi pare fosse un venerdì e io arrivai con lo scartafaccio sotto il braccio e fui accolto da un personaggio mitico della Fiat di allora, la signorina Rubiolo: alta, una specie di granatiere, simpatica, estroversa, materna, la quale prima ancora di farmi aprire bocca mi inondò di piccoli cadeau, regalini non di valore ma graziosi, come un nécessaire per pulirsi le scarpe. Li appesi e sembravo un albero di Natale. Fui ricevuto dal direttore che non sapeva niente del copione, glielo detti e lui era contentissimo: “Spero che lei abbia fatto un lavoro che sia nella chiave de I nuovi angeli, sicuramente ancora più ricco di idee e di spunti”. Mi disse che sarebbe andato via per il week-end e si sarebbe portato il copione per leggerlo e passare un bel fine settimana, che sicuramente si sarebbe divertito, e mi diede appuntamento per il lunedì alla stessa ora per “metterci d’accordo”. Io ero contentissimo e telefonai a Cristaldi dicendo che alla Fiat mi avevano accolto benissimo e che avevo un appuntamento per lunedì. Il lunedì fatidico tornai, mi venne incontro la signorina Rubiolo che sembrava il simulacro del dolore, mi guardò sdegnata con compassione, mi fece cenno di aspettare, poi venni introdotto nell’ufficio. Pestelli stava dietro il suo tavolo e mi disse: “Io mi sono molto divertito, ma se adesso vado dal professor Valletta con questo copione è sufficiente che legga le prime cinque pagine per licenziarmi in tronco indicandomi la porta, quindi la prego di riprendersi il suo testo, le auguro di trovare qualcuno che glielo faccia girare nella propria fabbrica”. Si capiva che era un uomo simpatico, che gli dispiaceva; uscendo chiesi alla signorina Rubiolo se dovessi restituire i regali e lei mi disse di no, con gesto di grande munificenza aziendale. La fabbrica la trovai in un altro modo, tramite degli amici: andai dal capo dell’Eni, portai il copione e la cosa che li convinse fu che la Fiat non aveva voluto: “Ah sì? Allora adesso lo facciamo noi” e sottintese che si sarebbero fatti complici di un dispetto alla Fiat. Approfittai di questo conflitto e girai il film in una fabbrica metalmeccanica di proprietà dell’Eni che non so se esista ancora, il nuovo Pignone. Si trovava alla periferia di Firenze ed era una fabbrica metallurgica che era stata chiusa, o meglio che i proprietari volevano chiudere e che il Sindaco di Firenze, il famoso Lapira, difese invece accanitamente perché avrebbe voluto dire la perdita del posto di lavoro per alcune centinaia di lavoratori. Riuscì a fare in modo non solo che la fabbrica non venisse chiusa, ma che fosse rilevata da una grossa azienda di Stato, dall’Eni. Divenne poi la fabbrica delle bombole da cucina dell’Italgas, infatti il pezzo che viene lavorato nella catena di montaggio di questa pseudo-Fiat è la parte superiore delle bombole per alimentare le cucine economiche, bombole cilindriche con una imboccatura che si restringe e che nel film avevamo ribattezzato “calandrone giroscopico”, un pezzo di non si sapeva bene cosa fosse, ma bastava fare in modo che non si capisse che era in realtà il pezzo di una bombola da cucina; all’interno del nuovo Pignone abbiamo ambientato tutti gli episodi del film, e sembrava a tutti gli effetti la Fiat. Omicron fu linciato dalla critica e in particolare da “La Stampa”, il giornale di Torino; il nome del critico era Leo Pestelli, figlio di Gino Pestelli, quindi ero passato attraverso due setacci, due filtri censori: il padre che difendeva gli interessi d’immagine della Fiat e il figlio che su “La Stampa” era il titolare della rubrica della critica cinematografica. Fece a polpette il mio povero Omicron; la cosa divertente è che la terza generazione, Geo Pestelli, mio carissimo amico, è critico musicale de “La Stampa” e quindi, avendo io fatto spesso regie d’opera, sono stato recensito da tre generazioni di Pestelli. Devo dire sempre con molta simpatia da Geo. Pestelli scrisse su La Stampa un pezzo terribile; io lo conoscevo ma non è che andassi alle calcagna dei critici, ho sempre avuto un atteggiamento orgoglioso e riservato che a me pareva anche rispettoso. Il giorno dopo notai che Pestelli, nella hall dell’Excelsior del Lido di Venezia, mi guardava e non mi salutava nemmeno. La terza volta mi avvicinai e gli dissi: “Caro dottor Pestelli, d’accordo, il film non le sarà piaciuto, ma addirittura togliermi il saluto!” Lui mi guardò e mi rispose: “Ma io non sono il dottor Pestelli!”. Era un altro: ero rimasto così impressionato dalla sfavorevole accoglienza del film che mi pareva di cogliere l’espressione di rimprovero di un critico anche negli occhi di un signore che faceva i bagni al Lido di Venezia.
A poco a poco il film fu rivalutato. Lei oggi cosa pensa di Omicron?
Il film aveva dei momenti molto riusciti, altri meno; era pur sempre l’opera di un esordiente perché la mia vera opera prima e penultima è stata Omicron, quindi il film aveva sicuramente dei punti deboli, delle zone fragili, e offriva l’opportunità attraverso quei varchi di una demolizione implosiva totale, e così fu. Ora se ne parla come di un grande film degli anni Sessanta. Mi diverte un po’ la cosa.
Molti registi diressero dei documentari pubblicitari per le grandi aziende dell’epoca. Le hanno mai chiesto di fare film industriali?
Come si capisce da quello che ho fatto in ambito produttivistico-manifatturiero nell’ambiente industriale, nessuna industria si è mai sognata di propormi di fare del cinema industriale, che invece i miei illustri colleghi, assai più illustri di me soprattutto a quei tempi, avevano praticato con grande bravura, credo ispirandosi ai modelli anglo-americani e sovietici. Esisteva un bel cinema industriale italiano; poco tempo fa, per compiere un gesto d’amicizia verso gli attuali responsabili degli Archivi Olivetti, ho visto tutta la produzione cinematografica della Olivetti e alcune erano cose davvero eccellenti, con grande gusto, grande fantasia, grande capacità di messaggio, grande anticipazione rispetto a quella che era la cultura pubblicitaria italiana negli anni Cinquanta e Sessanta. Era poi un genere di documentarismo che non mi era familiare perché era pur sempre un documentario d’arte, con inquadrature perfette e luci straordinarie; io venivo dalla televisione, da quello che si chiamava “giornalismo televisivo”, dal contatto diretto con la gente, dall’assenza quasi totale di una ricerca di tipo estetico-figurativa. Ero molto interessato ai contenuti e alla realtà, la realtà con le sue ineleganze, non avevo niente a che fare, stilisticamente oltre che per quello che riguardava i contenuti, col cinema industriale.
C’era una differenza tra fare film industriali, caroselli e spot pubblicitari?
Sì, i miei illustri colleghi facevano cinema industriale per le aziende importanti, non solo per quelle illuminate di tipo olivettiano. Lo facevano anche per evitare di fare i film commerciali: con una strana contraddizione tipica di allora – io ero il più giovane e anche se vogliamo il più tonto – rifiutavamo il “cinema di consumo” perché il cinema doveva essere sempre opera d’autore, indifferente alla sorti del mercato, però bisognava anche campare e generalmente quelli della mia categoria non è che siano mai stati inclini ai sacrifici, alla vita spartana… Io avevo cinque figli, non potevo non dar loro da mangiare per far sì che la mia anima restasse bella, bisognava campare e la pubblicità serviva a questo.
Come conciliava il cinema di critica sociale alla pubblicità?
Lo facevamo in gran segreto. Stranamente facevamo la pubblicità ed esaltavamo acriticamente i prodotti padronali ma non volevamo fare il cinema padronale. Strepitosi cineasti italiani hanno fatto Caroselli, però non ci sono le firme perché ci si vergognava; era un’attività quasi clandestina, alimentare, e le chiamavamo appunto “marchette alimentari”. La mia fregatura era che, essendo io relativamente noto attraverso gli schermi televisivi come personaggio – oggi si direbbe “conduttore” o “comunicatore” – riconoscibile dalle casalinghe, che si facevano influenzare dai Caroselli, dovevo apparire: si poneva sempre come condizione che io dovessi anche apparire nel filmato. Sembrava che io fossi quindi l’unico bieco cineasta servo del patronato, della corruzione mercificante, io solo. Adesso è diventato persino un vezzo vantarsi di aver lavorato per la pubblicità.
Dopo la Innocenti, la Montedison, la Fiat, arriviamo all’autunno caldo e ad Apollon, una fabbrica occupata. Come è nato quel progetto?
L’esperienza di Apollon è nata nel mitico 1968. In quell’anno successero tante cose e tra le altre ci fu una specie di sollevazione anti-registica da parte dei giovani. I registi erano uno dei bersagli preferiti dal movimento studentesco, gli studenti ce l’avevano in modo particolare con noi. Nonostante avessi fatto film come Omicron, che era, se vogliamo, un film marxista senza sapere di esserlo, c’era questa corrente di amore-odio ed eravamo proprio sbeffeggiati, come quando venne bloccata l’inaugurazione del Festival di Venezia. Io non capivo perché, essendo l’ultimo arrivato e non ancora consapevolmente politicizzato, non capivo bene cosa ci rimproverassero questi giovanotti, velleitari se vogliamo; perché ce l’avessero tanto con persone come Zavattini, Fellini, De Sica, Visconti. Tanto più erano autori di impegno civile, tanto più venivano spernacchiati; se non ricordo male io non venivo quasi preso in considerazione. Un’accusa che veniva mossa, e dalla quale mi salvavo un po’, era che il cinema italiano non si fosse mai occupato della fabbrica, della lotta operaia, della condizione operaia, delle relazioni industriali, dello sfruttamento e dell’alienazione del lavoro in fabbrica. Poco dopo dall’Università il movimento si propagò, toccò l’area operaia come era accaduto in Francia, dove l’innesco era stato in ambito studentesco ma poi la forza reale della contestazione e del cambiamento divenne la classe operaia. Allora gli autori cinematografici cominciarono a domandarsi cosa fare per gli operai, con gli operai; a Roma gli uomini di cinema entrarono finalmente in una fabbrica; una tipografia con 500 dipendenti, si chiamava Apòllon o Àpollon (non ho mai capito dove andasse l’accento) ed era già al settimo mese di occupazione. Ricordo allora riunioni molto impegnative a cui partecipavo con Bertolucci, Bellocchio, Maselli, Zavattini, Pontecorvo e altri. Stabilimmo di prendere contatto con i lavoratori che occupavano la fabbrica e ci invitarono a cena nella loro mensa. Nacque un rapporto ma, poco per volta, questi incontri si diradarono perché c’era un conflitto, due linee; la linea degli operai era riaprire la fabbrica e lottare per la difesa del loro posto di lavoro, mentre gli intellettuali proponevano di lottare per la rivoluzione, per obiettivi che quindi nemmeno i più politicizzati dell’Apollon vagheggiavano: “Prima dobbiamo risolvere il problema dell’occupazione, poi faremo la rivoluzione”. Da parte della nostra categoria professionale arrivavano quindi proposte come il blocco stradale della Tiburtina, che era la strada dove sorgeva la fabbrica. Avrebbe significato arrivo della polizia, espulsione degli occupanti e chiusura immediata: sarebbe stato un grande regalo per il padrone… Fu detto e ribadito che se noi volevamo aiutarli, l’unico aiuto concreto che potevamo dare era il sostegno del loro fronte senza proporne degli altri, perché ci sarebbe piaciuto fare la presa del Palazzo d’Inverno. Se non ricordo male io ero l’unico d’accordo con loro, fatto sta che fui l’unico a non scomparire. Continuammo a parlare del film e concordammo che avrebbe dovuto essere divertente, non noioso. Era un film che si sarebbe fatto con quattro soldi nel giro di poco più di una settimana, con soli volontari: gli operai si sarebbero improvvisati attori, i capannoni sarebbero diventati i teatri di posa perché, essendo giunti al settimo mese di occupazione, concordammo che il film dovesse essere una cronistoria di quello che era accaduto in quella fabbrica fino ai giorni in cui lo giravamo. Una “ricostruzione storica”, anche con momenti drammatici, commoventi. Non era un documentario ma un anfibio; ho scoperto di aver inventato la docufiction, come mi ha detto recentemente un regista molto raffinato che ho incontrato… mi posso fregiare della benemerenza di aver anticipato la docu-fiction, laddove all’epoca nessuno si sarebbe sognato di battezzare così quel film, che non sapevamo peraltro come chiamare, dato che non era un documentario, pur essendovi inseriti alcuni materiali di repertorio. Era una ricostruzione drammaturgica con gli operai che facevano se stessi, alcuni di loro recitando benissimo; d’altra parte Roma era la città di Ladri di biciclette, dove l’attore non professionista di estrazione popolare era già stato sperimentato con esiti positivi. Emersero anche delle figure commoventi o divertenti, ricostruimmo delle situazioni di grande tensione all’interno della fabbrica, perché all’origine c’era un forte disaccordo sul tipo di rivendicazioni da fare, sulla piattaforma. Una volta fecero un’assemblea in cui alla fine si picchiarono e noi l’abbiamo ricostruita: si ripicchiarono perché alcuni di loro si erano nuovamente lasciati andare, mentre gli altri cercavano di dividerli. Io subdolamente e cinicamente alimentavo la lite… Volevano innanzitutto non annoiare perché la gente doveva venire: i parenti, gli operai… era un film mirato a un pubblico ben preciso, il pubblico popolare italiano di tutti gli ambienti; abbiamo girato a tappeto il Paese col film, ottenendo reazioni di entusiasmo, commozione generale, applausi e alla fine la sottoscrizione, che era il nostro obiettivo: far conoscere il film ma soprattutto rispondere in modo elementare e molto concreto alla richiesta che ci era stata fatta di aiutarli. Noi li abbiamo aiutati perché i quattrini che arrivavano dalle sottoscrizioni hanno permesso di continuare l’occupazione, dato che erano agli sgoccioli e c’era anche il cambio di stagione, non avevano i soldi per comprare i vestiti ai bambini… La fabbrica fu riaperta e sempre con questo filmetto avevamo suscitato un fortissimo movimento di opinione; ovunque lo proiettassimo chiedevamo di mandare un telegramma al Ministero del Lavoro, per cui Roma venne sommersa dai telegrammi. Divenne un caso nazionale, la storia di pochi centinaia di lavoratori. Mi pare che le riprese durarono otto giorni. Verso la fine non c’erano i soldi per comprare la pellicola e avevamo trovato piccoli finanziamenti ma non bastavano, anche perché non tutti nella troupe erano volontari e c’era il solito tecnico qualunquista di mezza età che voleva essere pagato. Mi ricordo che una notte scrissi i soggetti di una serie di Caroselli che mi erano stati commissionati, a condizione che il produttore me li avrebbe pagati la mattina dopo mandandomi un fattorino con l’assegno: così è stato fatto… Il problema era che volevamo rappresentare anche i padroni ma non volevamo attori e gli operai non potevano interpretarli. Cercammo allora nel PCI, che ci sosteneva molto moralmente e molto poco finanziariamente, l’adesione di alcuni che avessero l’aspetto più padronale, per esempio col cappotto di cammello… Uno era il Presidente degli Editori Riuniti, un altro il responsabile della Casa della Cultura, dirigenti PCI dall’aspetto umano e mondano che si divertirono a fare i padroni. Nessuno voleva fare il poliziotto: una casa di noleggio di attrezzature cinematografiche ci aveva dato gratis due jeep e una sartoria teatrale ci avrebbe prestato gratis dodici divise, ma quando si disse agli operai che bisognava scegliere tra loro i dodici agenti che sarebbero arrivati di notte cercando di fare irruzione nella fabbrica, episodio reale rigorosamente accaduto, ci fu un rifiuto. Allora non c’erano ancora le assemblee e lo statuto dei lavoratori, c’erano le vecchie commissioni interne e il capo della commissione interna, Rolando Morelli, indisse un’assemblea straordinaria e prese a male parole gli operai che avevo già scelto perché fisicamente adatti, dicendo loro che era un “atteggiamento piccolo-borghese oggettivamente a sostegno della classe padronale rifiutare di mascherarsi” perché non sarebbe stato possibile girare la scena. Fu una scelta politica.
Come ha coinvolto Volonté nell’operazione?
Volonté venne a sapere che stavo facendo questo film e che stavo scrivendo il commento. C’era molto speakeraggio perché la lotta era complicata e bisognava spiegare molte cose; lui si offrì di leggere il testo e si è rivelata uno degli elementi di qualità del film, la sua voce…
La colonna sonora è molto particolare. Chi la compose?
Fu un altro atto di generosità che arrivò da un gruppo musicale che venne a trovarci presentandosi come pioniere del jazz freddo in Italia; avendo sentito del film, volevano offrirsi di musicarlo. Ci fu un imbarazzo generale perché c’era chi avrebbe voluto come colonna sonora l’Internazionale, Bandiera rossa, Bella ciao… Morelli con la consueta intelligenza, disse che era giusto accettare questo contributo militante anche se ai lavoratori non piaceva il jazz freddo. Il film era montato, mancava solo il commento musicale e bisognava capire come fare, c’era il rischio di fare cose trombonesche, retoriche, con musicacce trionfalistiche. I musicisti spiegarono che la loro prassi sarebbe stata prima di tutto vedere il film poi musicarlo, a braccio, e così abbiamo fatto. Questo imprevedibilissimo commento musicale si sposa in realtà benissimo. Qual fu la genesi di Ro.Go.Pa.G.? Avevo appena finito I nuovi angeli, che venne invitato come rappresentante del cinema italiano per la prima edizione di una nuova rassegna del Festival di Cannes, la Semaine de la Critique che iniziava quell’anno; fu un grande riconoscimento per me, che fino a pochi mesi prima avevo fatto il redattore del Telegiornale, sognando un giorno di fare il cinema. A Cannes venne a presentare I nuovi angeli Roberto Rossellini, che aveva un particolare innamoramento nei confronti di questa mia operazione e contestualmente nacque una grande amicizia, sempre con un atteggiamento di enorme rispetto. Il produttore de I nuovi angeli era Alfredo Bini della Arco Film, che aveva scoperto e lanciato Pasolini con Accattone e Mamma Roma e aveva un buon rapporto con Rossellini, che a propria volta era il dominatore assoluto della Nouvelle Vague francese, incarnata in particolar modo da Godard. In quel periodo, nella primavera del 1962, Bini disponeva quindi di queste quattro pedine. A Rossellini venne l’idea di fare un film sul consumismo, parola che in Italia ancora non si conosceva ma lui era un uomo straordinario, sempre in anticipo, l’unico ad aver già letto i testi della sociologia americana come I persuasori occulti, La strategia dei desideri, di autori come Packard: cose che qui erano ancora esotismi coltivati da rarissimi amatori. Disse che era ora perché cominciavano a farsi strada in Italia la pubblicità, la manipolazione, tutte le tecniche per suscitare i bisogni superflui; a parole tutti si dichiararono entusiasti anche se poi tradirono un po’ l’idea iniziale: solo io con Il pollo ruspante feci un vero e proprio paradigma del consumismo all’italiana, delle prime rudimentali tecniche mentali di manipolazione dei bisogni. Il film uscì e curiosamente l’episodio che piacque di più fu il mio perché metteva tutti d’accordo; con La ricotta – una delle sue cose più belle – Pasolini aveva sì i cultori ma aveva anche fieri avversari come la destra, il clero, che ci obbligò a cambiare titolo, passando da Ro.Go.Pa.G. a Laviamoci il cervello, però fortunatamente nessuno lo sa e si continua a chiamarlo Ro.Go.Pa.G. Quando conobbe Pier Paolo Pasolini? Fu in quell’occasione, mi metteva una gran soggezione. Una mattina, il film ancora non era uscito, lo incontrai e mi disse che aveva visto il mio episodio; mi fece i complimenti affermando che forse sarebbe stato più poetico se non avessi fatto morire i protagonisti. La cosa mi gratificò parecchio, in realtà anche io ero stato incerto su come concludere, alla fine questa famigliola si schianta sull’autostrada andando a fare un giro in macchina perché volevo fare qualcosa che mi sembrava grande, fare in modo che il fragore del sinistro si dissolvesse nel fragore di un applauso che segnava la conclusione di una conferenza sul consumismo tenuta da un famoso sociologo. Il film fu in realtà apprezzato a metà, ne fu accolto mezzo, costituito da La ricotta e dal mio Il pollo ruspante. L’episodio di Rossellini sconcertò, quello di Godard ancora di più ed erano un po’ una palla al piede. Pasolini era molto infastidito da questa cosa, a me non è che importasse molto, mi appagava l’essere stato inserito in questo strano acronimo, anche se con una sola lettera. Mi ricordo che una sera a cena – tutto questo prima del processo – un produttore disse a Pasolini che avrebbe dovuto ritirare il film, eliminare i primi due episodi e distribuirlo come Pa.G. Nacque una discussione su come fosse possibile far uscire un film che durava meno di un’ora, poi non se ne fece nulla. Rossellini aveva proposto un sottotitolo a Pa.G., con tanto di domanda e risposta: “E Ro.Go.? Al rogo!”
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