Vogliamo rendere omaggio all’attrice Anna Karina che rimarrà per sempre un’icona del cinema con le sue stesse parole raccolte da Armando Ceste nel film “Anna Karina. Il volto della Nouvelle Vague” (1996) dove ricorda il suo esordio ne “Le Petit Soldat”: “Dopo un primo provino con Jean-Luc Godard nel frattempo esce in sala ” À bout de souffle” e ricevo un telegramma: “Signorina questa volta è probabilmente per la parte principale.” Firmato Jean-Luc Godard. Mi presento e trovo un signore che non conoscevo (era Raoul Coutard) che mi guarda e mi dice: “Bene, venite domani a firmare il contratto” e io risposi “ma signore, che tipo di film è?” e lui “è un film politico, dunque non vi preoccupate” e ancora io “non posso firmare, sono minorenne”. “Bene, venite con vostra madre”, “ma mia madre è a Copenaghen”. E lui dice “Oh là là, ebbene le pagheremo un biglietto d’aereo perché venga a firmare il contratto”. E io rispondo “mia madre non vorrà, non ha mai preso l’aereo”. Allora telegrafo a mia madre “mamma, c’è bisogno che tu venga perché è il ruolo principale di un film politico” e lei “Cosa?”, “Sì, mamma. Occorre che tu venga, è molto importante per me.”, “Reciti in un film politico? Sei matta, mi prendi in giro?”. Ha comunque preso l’aereo, è arrivata a Parigi e ha firmato.
Giovedì 19 dicembre, alle ore 18.30, al Polo del ‘900, Letter@21, rivista dal carcere di Torino, presenta i dieci racconti finalisti del concorso nazionale di
scrittura del festival delle arti dentro e fuori “LiberAzioni 2019”. Un’occasione per riflettere su
come l’inclusione e la cultura possano abbattere i muri che separano i territori. Il carcere dal
“fuori”, le periferie dal centro.
Intervengono Monica Cristina Gallo (Garante dei diritti delle persone private della libertà Comune di
Torino), Bruno Mellano (Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà Regione
Piemonte), Georges Tabacchi (Co-diretore Biennale della Prossimità e Presidente Consorzio Sociale Abele
Lavoro), Susanna Ronconi (Associazione Sapereplurale) e Valentina Noya (direttrice festival LiberAzioni).
Letture a cura dell’Associazione Quinto Polo.
Quest’anno per il concorso “Io sono tanti, tante”, ideato e curato dalla Cooperativa ETA BETA e
dall’Associazione Sapereplurale, all’interno del festival delle arti dentro e fuori LiberAzioni (progetto
finanziato con il Programma AxTO), sono stati più di cinquanta i racconti pervenuti dalle carceri di tutta
Italia. Dieci i racconti finalisti selezionati per essere sottoposti al giudizio di tre giurie: mista, composta da
professionisti del settore e detenuti dell’alta sicurezza della Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di
Torino; popolare, con i partecipanti al laboratorio di scrittura autobiografica tenutosi presso la Biblioteca
Civica “Cognasso” di Torino e dell’Associazione Informazione per il premio Diritti Globali.
Narrazioni capaci di raccontare la sofferenza e i sentimenti della detenzione, che emergono forti e
prorompenti dalla maggior parte degli scritti, riuscendo a cogliere aspetti “introspettivi e filosofici che
ruotano intorno alla sfera dell’Io, alla ricerca del proprio essere tra mille voci dissonanti”, o che possono
“utilizzare un muro come valore simbolico, la storia di un confine, che grazie all’amicizia e all’arte viene
abbattuto”, senza tralasciare “storie di grande profondità emotiva che riescono a mettere in luce il senso di
solitudine e disperazione di fronte alle difficoltà della vita.”
Storie da dentro che sono anche storie del fuori, perché il carcere è specchio di quello che accade
all’esterno. Dove il dentro e il fuori, si mescolano, si confondono, ci disorientano con quello che sia dentro
sia fuori c’è o si pensa possa esserci in comune e dove si scopre, nel luogo in cui meno ce lo si aspetterebbe,
come vi possa essere “un incontro positivo tra differenze”.
Differenze che grazie alla cultura possono trovare terreni d’incontro per promuovere una società più
inclusiva superando la dicotomia periferia/centro.
Con Letter@21 e il festival LiberAzioni la voce “di dentro” riesce così a valicare il muro e riecheggiare tra le
pagine di una rivista dove il carcere viene trattato per quello che realmente è, senza mai risultare distopico,
cercando di trasmettere una corretta informazione, tramite chi il carcere, è costretto a viverlo sulla propria
pelle.
La cooperativa Eta Beta dal 2001 lavora con i detenuti e per i detenuti, dal 2016 realizza Letter21 all’interno
del carcere di Torino.
L’Associazione Museo Nazionale del Cinema (AMNC) e il film VR Free (We are free) continuano il loro viaggio oltre le sbarre. Il film per la regia di Milad Tangshir, prodotto da Valentina Noya e realizzato con il sostegno di Film Commission Torino Piemonte grazie al bando Under35 Digital Video Contest, dopo la selezione al Festival dei Popoli di Firenze e VR Days ad Amsterdam, ha vinto a Bogotà la prestigiosa statuetta di Santa Lucia – una sorta di vero e proprio Oscar in versione femminile – assegnata nell’ambito della sezione Realidad Virtual del festival internazionale, comunemente ormai noto come Bogoshorts: tra i più importanti dell’America latina e non solo per i cortometraggi.

Ma non finisce qui: VR Free evade ancora e vola a Park City nello Utah, in concorso al SundanceFilm Festival (23 gennaio – 2 febbraio 2020), la prestigiosa realtà statunitense che celebra dalla fine degli anni ’70 il cinema indipendente di tutto il mondo e che è stato dai primi anni ’80 sotto l’egida del grande attore e regista Robert Redford. Il documentario in VR del regista iraniano era già sbarcato in anteprima mondiale al Lido di Venezia come unico film italiano nell’ambito di Venice Virtual Reality – 76a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica.
VR Free (We Are Free) è un’esplorazione immersiva nei luoghi della detenzione, tra le mura del carcere di Torino. È stato girato con la nuova tecnologia della realtà virtuale (VR) che pone lo sguardo sulla natura degli spazi descrivendo alcuni momenti di vita all’interno della Casa circondariale Lorusso e Cutugno di Torino. Il film raccoglie la reazione di alcuni detenuti durante il loro incontro con video 360° che mostrano la vita fuori dal carcere. Usando i visori VR e le cuffie, i reclusi, privati temporaneamente della loro libertà, hanno virtualmente potuto partecipare ad alcune situazioni pubbliche e intime che non possono più vivere, come una partita di serie A allo stadio, una festa in discoteca il sabato sera, un’immersione sottomarina, l’incontro con la propria famiglia in un parco pubblico.
L’Archivio Superottimisti ha il piacere di invitarvi ad una giornata interamente dedicata al cinema di famiglia, promossa dal Polo del ‘900 di Torino e dal Piccolo Museo del Diario di pieve Santo Stefano. Appuntamento il prossimo 17 dicembre a partire dalle ore 15.00 presso il Polo del ‘900, con un talk aperto al pubblico dal titolo ‘Dall’archivio alla produzione culturale, nuovi immaginari e linguaggi’ e l’inaugurazione dell’installazione ‘Something About You – 3 Women in a Triptych’ di Line Kühl e Giulia Ottaviano, sostenuta dal bando Ora! della Compagnia di San Paolo e realizzata con materiali anche dell’Archivio Superottimisti.
Un importante momento di riflessione che vede la partecipazione di rappresentanti delle realtà museali e degli archivi, ma anche registi, promotori culturali, organizzatori di rassegne e progetti cinematografici e teatrali.
L’attrice Barbara Steele, icona dell’horror italiano e del Torino Film Festival 2019, è stata intervistata da Caterina Taricano nel numero 94 di MONDO NIOVO uscito nel 2013. Ve la riproponiamo nella versione integrale.
L’ultimo film l’ha girato proprio in Italia. Un piccolo horror diretto dallo specialista Gionata Zarantonello, The Butterfly Room – La stanza delle farfalle. Come le capita da molto tempo, Barbara Steele interpreta di fatto se stessa, una vera e propria icona del cinema horror. Non vive questa situazione come una diminutio, ma come sempre con allegria e grande senso dello humour. Questo atteggiamento nei confronti del cinema e della vita le è stato sempre riconosciuto da tutti i registi con i quali ha lavorato.
Barbara Steele, come si diventa icone horror?
Nel mio caso senza rendersene assolutamente conto. Ero stata chiamata in Gran Bretagna per qualche piccolo ruolo, poi fui notata da un casting italiano che cercava volti per un piccolo film da girare in Italia. Era un film dell’orrore, e a quel tempo – stiamo parlando dei primissimi anni Sessanta – l’horror batteva prevalentemente bandiera inglese. Erano gli anni della Hammer, di Christopher Lee e di Peter Cushing, due stupendi attori di teatro che avevano di fatto reinventato il modo di raccontare le storie di paura. Io alla Hammer avevo fatto un provino ma non mi avevano preso, invece in Italia mi scelsero subito. Mi dissero che il regista, Mario Bava, era al suo primo film. Tecnicamente era così ma era in realtà un uomo di cinema molto esperto, aveva lavorato con molti registi e aveva fatto la loro fortuna perché sapeva perfettamente come si doveva girare. E infatti La maschera del demonio è stato un successo incredibile, in tutto il mondo, ed è ancora molto popolare adesso.

Perché secondo lei quel film del 1960 ha avuto così tanto successo?
Perché era diverso dagli altri, così come io ero diversa dalle altre attrici che facevano quei film. Mi dicevano tutti che ero una bella ragazza, e effettivamente credo che il mio corpo non fosse niente male. Ma poi aggiungevano: “è bello anche il volto, anche se è strano”. E infatti il mio volto era strano, nel senso che è asimmetrico, non ha i lineamenti scolpiti, può piacere ma è anche un po’ inquietante. Di solito le bellezze dell’horror erano puramente decorative, erano le vittime del vampiro, dovevano essere affascinanti e poi fare una brutta fine, magari mentre si stavano spogliando. Negli horror italiani era un po’ diverso, perché di solito il vero centro di malvagità erano proprio le donne, che diventavano così le protagoniste assolute. Il male è femmina, in Italia. Credo sia un po’ il frutto della vostra cultura cattolica: il peccato originale, cose del genere. Sta di fatto che i ruoli che ricoprivo erano quasi sempre da protagonista, e il più delle volte cattivissima. Devo dire che questo non mi dava nessun fastidio, anzi mi faceva piacere.
Era una forma di anticonformismo, la sua? Anche perché proprio in quegli anni lei fece una battuta molto cattiva su Doris Day…
Si, fu una battuta in un’intervista a una rivista francese, Doris mi tolse il saluto e non me la perdonò mai. Io avevo solo detto che mi piacevano i ruoli perversi che mi venivano offerti mentre detestavo i ruoli da vergine professionista che erano offerti a Doris Day, che all’epoca aveva girato anche un paio di thriller nel ruolo della innocentina vittima delle circostanze. Non era una critica a lei ma a quel tipo di presenza femminile. Avrei potuto fare mille altri esempi, ad esempio le bionde algide che Hitchock ha sempre messo nei suoi film. Hitch era evidentemente attratto morbosamente dalle bionde algide. Io non avrei mai potuto accettare un ruolo così, anche se ogni tanto nei film ero bionda. Non era un attacco a Doris, ma lei la prese molto male. Beh, diciamo che non ho perso il sonno per quanto è successo.
Che ricordo ha dei registi italiani con i quali ha lavorato?
Bava era tecnicamente quello più bravo, faceva dei veri e propri miracoli con due soldi di trucco perché conosceva molto bene la tecnica. Freda era forse il più perverso, nel senso che con lui mi sono dovuta inventare anche necrofila (L’orribile segreto del dottor Hichcock). Era molto bravo anche un vecchio regista, Camillo Mastrocinque, che era noto soprattutto per i film comici ma che nell’horror si dimostrò straordinario. Durante gli anni del successo italiano lavorai anche con Roger Corman. I soldi erano sempre pochi ma il set con lui era qualcosa di molto diverso. Era freddissimo, una vera e propria macchina razionale. Gli italiani erano più caciaroni e casinisti, ma i risultati furono buoni in entrambi i casi.

In quegli anni lei passò da Bava a Fellini quasi senza battere ciglio…
Si, Federico mi diede una parte in 8½, ma quel ruolo era frutto di una conoscenza personale molto approfondita. Niente di pruriginoso, però. Io frequentavo molto Federico perché lui amava l’occultismo e a me piacevano molto le sedute spiritiche, mi interessavo di magia bianca, ero considerata nella Roma dell’epoca quasi una sensitiva. Andavamo da lui io e Harriet White, che era una vera e propria medium e che è la megera che mi perseguita nei due film che ho fatto con Freda, L’orribile segreto del dottor Hichcock e Lo spettro. Aveva una storia strana, Harriet. Era l’inglesina di Paisà, aveva avuto credo una storia con Rossellini ma poi aveva sposato lo scenografo Gastone Medin ed era rimasta nel mondo del cinema. Ma, soprattutto, organizzava sedute spiritiche. Per tornare a Federico, la magia bianca lo affascinava perché aveva paura della morte. Ci fu un periodo che ero da lui quasi tutte le sere. Da lì ad avere una parte in un suo film, il passo fu veramente breve.
E in quegli anni la ritroviamo anche nelle commedie…
Si, cercavano di fare di me una delle presenze sexy: il costume in Italia stava cambiando e le attrici si potevano spogliare molto di più sullo schermo. Non mi tirai indietro. Il ruolo che mi ha più divertito è stato quello di Teodora in L’armata Brancaleone. Quel film è stato un vero divertimento anche quando lo stavamo girando. Monicelli era un altro cattivo, però poi faceva morire dal ridere con le sue battute, era una sorte di burbero benefico. In quel film credeva davvero molto, credo che glielo avessero bloccato qualche anno prima perché i produttori non ci credevano e lui, che era un uomo che amava le sfide, si era buttato a capofitto in quella sfida e aveva coinvolto un po’ tutti noi che ci lavoravamo. Diceva che sarebbe stato un grande film e che proprio per quello non glielo volevano far fare, ma che lui ce l’avrebbe fatta. E fu proprio così. Mi ricordo un’altra cosa di quel film: lui prese da parte me, Catherine Spaak e Maria Grazia Buccella (cioè le tre donne del film) e ci disse che il nostro ruolo non era enorme ma era fondamentale. E questo perché lui era stufo di leggere di un Medioevo tutto fatto da damigelle trepidanti e vestite di bianco. Voleva delle donne vere, delle femmine che non avevano paura degli uomini ma che li sapevano sedurre e piegare a propri desideri. Come è sempre stato e come sempre sarà.
Sono stato anni di grande lavoro e anche di grandi polemiche. Come ha detto lei, il costume in Italia stava cambiando, ma questo non avvenne senza scossoni e senza tensioni…
Lasciamo perdere le tensioni politiche, quelle non mi interessano anche se in proposito ho sempre avuto le mie idee molto precise. Ma pensate che una volta ci fu un fidanzato che al cinema, mentre era proiettato un horror interpretato da me, cercò di violentare la sua ragazza e, al suo rifiuto, la uccise. Giustamente il caso creò scalpore. Quello che trovo davvero allucinante è che ci fu un giornale che mi accusò di essere la responsabile di quella morte, perché in quel film mi spogliavo. Capito? Il colpevole non era quel pazzo criminale assassino, ma io. Succedeva anche questo, nell’Italia di quegli anni. Quel giorno, e per un lungo periodo successivo, non lessi più il giornale e mi venne un gran mal di testa, dovuto a una rabbia impotente.

E poi lei ritorna in America, e di fatto cambia vita.
Si. Mi sono sposata. Mio marito era uno sceneggiatore, ma non credo di averlo sposato per questo motivo. Credo fosse scritto nel destino. Lui si chiamava James Poe, e io, la reginetta dell’horror, non potevo non sposare uno che si chiamava Poe, che peraltro è uno scrittore straordinario. Siamo stati insieme per molto tempo, e io insieme a lui ho intrapreso un’altra carriera, quella di produttrice. Ho lavorato per il cinema e per la televisione, in Canada e negli Stati Uniti. Ma ha continuato a fare l’attrice… Si, mi hanno chiamato molte volte, un po’ perché il mio nome non dico che facesse cassetta ma sicuramente suscitava curiosità. Mi hanno chiamato dei registi che mi hanno fatto recitare, e queste proposte le ho accettate. Mi hanno anche chiamato tanti per fare piccole parti in film improbabili, e quei ruoli li ho rifiutati: appena avevo il sospetto di essere usata solo per il mio nome, dicevo subito di no. Ho lavorato con Cronenberg, con Demme, con Joe Dante: tre registi molto diversi tra loro, ma tutti e tre grandi conoscitori di cinema, tant’è vero che nelle pause mi riempivano di domande alle quali spesso non sapevo rispondere (nel senso che erano troppo dettagliate per i miei ricordi). Poi ho lavorato con Dan Curtis, che ha molto meno ambizioni dei tre che ho citato prima ma è un ottimo regista di genere, uno di quelli che forse non esistono più. Sono molto contenta di come ho gestito questa seconda parte della mia carriera. Potevo fare un gran pasticcio e perdere ogni credibilità, per fortuna non è andata così.
E poi ha dovuto gestire anche gli inviti, la richiesta di conferenze, di ospitate a festival e a programmi televisivi.
Anche in questo caso mi sono orientata a scegliere in base all’impressione di credibilità che avevano i vari richiedenti. Negli anni Novanta sono andata molto volentieri in Italia per una retrospettiva dedicata a Mario Bava, nella quale sono stata ospite d’onore. In quel caso ho visto che tra me e Lamberto Bava, il figlio di Mario che adesso fa il regista e che ha tanto collaborato con lui, c’era totale identità di vedute sulla memoria del padre. Bava era un genio proprio perché non faceva nulla per dimostrarlo, sapeva scherzare e al tempo stesso aveva una padronanza incredibile di tutto quello che girava. Nelle interviste che mi fanno è il più citato, ed è giusto che sia così.
Lei ha compiuto 75 anni, il suo anticonformismo si è spento con il passare del tempo?
Beh, sicuramente certe frasi un po’ tranchant adesso non le pronuncio più. Ma l’odio per gli ipocriti, i cosiddetti “sepolcri imbiancati”, quello è rimasto. Sono strutturalmente contraria all’ipocrisia, soprattutto tra le donne. Se uno pensa una cosa, fa bene a dirla: soprattutto se è una sua idea in proprio e se non offende nessuno pronunciandola. Dovrebbe essere la prima regola della convivenza civile. Invece è quasi un’eccezione, ma un’eccezione della quale sono molto, molto fiera
L’Associazione Museo Nazionale del Cinema (AMNC) e Volere la luna organizzano l’anteprima del documentario in fase di lavorazione COMPAGNI di Pietro Perotti e Ruggero Alfano in programma mercoledì 4 dicembre alle ore 21,00 presso il Centro Studi Sereno Regis (Via Garibaldi 13, Torino); l’ingresso è libero con la possibilità di fare un’offerta per sostenere la post-produzione del film.

Dopo Senzachiederepermesso, realizzato insieme a Pier Milanese, Pietro Perotti firma un nuovo film, unendo materiali d’archivio, ma sopratutto i filmati e le interviste inedite che ha realizzato nel corso di questi anni; ad affiancarlo in questo lavoro il giovane film-maker e delegato sindacale Ruggero Alfano con il quale si sono unite visioni e istanze di due differenti generazioni.
“1969, l’autunno caldo. Alla Fiat Mirafiori di Torino – dichiarano gli autori Pietro Perotti e Ruggero Alfano – iniziano le agitazioni che segneranno la storia della lotta operaia e che culmineranno con la conquista dello Statuto dei lavoratori. Questo grande movimento sociale avrà termine il 14 ottobre del 1980 quando la cosiddetta “marcia dei quarantamila” porterà alla resa del sindacato e alla chiusura di una stagione di di lotte sociali e di grandi speranze collettive. A cinquant’anni dal ’69 cosa rimane di quelle lotte alle nuove generazioni di lavoratori? Una memoria da coltivare e da trasmettere che come un passaggio di testimone consegni alle nuove generazioni prospettive di lotta per i propri diritti ridotti sempre di più all’osso. Questo documentario vuole raccontare e condividere la memoria di quelle persone che credettero e si impegnarono nell’ideale di una società migliore in cui la classe operaia potesse trovare il suo giusto riconoscimento sociale e politico; persone che ai tempi tra loro si chiamavano semplicemente compagni.”
“Negli ultimi dodici mesi grazie a Pietro Perotti l’AMNC – dichiara il Presidente Vittorio Sclaverani – gli ha dedicato un numero monografico di Mondo Niovo, assegnato il Premio Maria Adriana Prolo 2018 durante il TFF, condotto un laboratorio di gommapiuma, promosso un carnevale partecipato con le sue creazioni e proiettato in moteplici occasioni Senzachiedepermesso. È davvero incredibile l’energia che riesce a trasmettere un uomo che sta per compiere ottantuno anni; in estate, grazie agli amici di Tedacà, è stata organizzata una delle proiezione più intense del suo film nel parco della Tesoriera di Torino; in quell’occasione tante persone diverse, tra cui Ruggero Alfano, si sono incontrate riconnettendosi con la grande storia collettiva della nostra città legata in modo imprescindibile con il lavoro in fabbrica e le lotte operaie. Pietro è un testimone diretto, ma soprattutto è un custode generoso di questa memoria comune grazie ai documenti che ha raccolto (film, manifesti, adesivi, giornali, registrazioni audio) e al lavoro costante che continua a fare dagli anni ’60 a oggi nell’animare la cittadinanza sui temi più importanti del nostro presente.”
Il manifesto del film, ispirato a un corteo del 1969, è realizzato da Carlo Minoli, già autore della graphic novel Dante Di Nanni, una storia nell’Italia occupata tra mito e realtà edita dall’omonima sezione torinese dell’ANPI.
Per maggiori informazioni: www.amnc.it – info@amnc.it – 347 56 46 645

Gli autori
Pietro Perotti è nato a Ghemme in provincia di Novara, il paese di Alessandro Antonelli, nel 1939.
Entra in Fiat il 9 luglio 1969, subito dopo gli scontri di Corso Traiano; ha partecipato a tutte le lotte operaie occupandosi da subito di comunicazione all’interno della fabbrica, realizzando adesivi, giornali murali, scritte e disegni nei bagni, pupazzi di cartapesta, poi gommapiuma, che hanno fatto diventare i cortei un grande teatro di strada. Con la sua cinepresa super8 ha documentato situazioni e lotte operaie a Mirafiori dal 1974 a oggi. Grazie a questo materiale inedito ha realizzato insieme a Pier Milanese Senzachiederepermesso che dipinge un affresco di vita operaia in quella che è stata la più grande fabbrica metalmeccanica d’Europa. Dopo essersi licenziato dalla Fiat, il 25 Aprile 1985, continua a creare pupazzi e installazioni di gommapiuma per teatri, televisioni e artisti come Stefano Benni, Altan e per tutte le occasioni di lotta e opposizione. Nel 2018 ha ricevuto dall’AMNC il Premio Maria Adriana Prolo alla carriera consegnato nell’ambito del 36° TFF.

Ruggero Alfano, trent’anni, laureato al Dams di Torino in Televisione e Nuovi Media, è un film-maker con alle spalle varie esperienze documentaristiche e cinematografiche. Da sempre vicino e interessato ai movimenti sociopolitici della realtà piemontese, è anche delegato sindacale della Fisac-Cgil. Nel 2013 ha vinto il Gran Premio della Giuria della seconda edizione di Lavori in Corto – Abitare si può con il film Art. 34: Verdi 15 realizzato insieme a Emanuele Marchetto.
VR Free di Milad Tangshir partecipa al Bogoshorts che si svolge a Bogotà (Colombia) dal 3 al 10 dicembre.
Il cortometraggio fa parte degli otto lavori in concorso nella categoria Virtual Reality.

L’Archivio Superottimisti è presente all’interno del programma del 37 TFF con 3 opere che hanno utilizzato alcuni degli home movies conservati: LUCUS A LUCENDO, di Alessandra Lancellotti e Enrico Masi, presentato nella sezione documentari italiani, terza produzione realizzata in collaborazione con Caucaso; LUI E IO di Giulia Cosentino, presentato nella sezione corti italiani e nato all’interno del progetto di formazione Re-framing home movies; NEL JARDIN DES PLANTES di Davide Leo, Giorgio Beozzo, Stefano Trucco e Fabrizio Spagna, presentato all’interno del progetto per giovani autori Torino Factory. Un altro grande risultato per l’archivio, un’ennesima dimostrazione della crescente attenzione di autori e festival verso il cinema di famiglia.
In occasione del 37° Torino Film Festival, l’Associazione Museo Nazionale del Cinema (AMNC) è lieta di annunciare il conferimento del PREMIO MARIA ADRIANA PROLO ALLA CARRIERA 2019 a Lorenzo Ventavoli, uomo di cinema a tutto campo, che proprio nel cinema ha rivestito diversi ruoli, diventando una delle più importanti figure di riferimento non solo a Torino. Lorenzo Ventavoli è infatti esercente, distributore, produttore, sceneggiatore, attore, critico e storico del cinema.
La cerimonia di consegna si terrà sabato 23 novembre alle ore 15.00 presso il Cinema Massimo (sala 3 – sala Soldati), con laudatio di Alessandro Casazza, giornalista e critico cinematografico de “La Stampa”, Capo Ufficio Stampa della Fiat fino al 2001 e Presidente del Museo Nazionale del Cinema dal 2004 al 2011.

Intitolato a Maria Adriana Prolo, fondatrice del Museo Nazionale del Cinema, il premio è un riconoscimento assegnato a una personalità del mondo del cinema che si è particolarmente distinta nel panorama della cinematografia italiana. In passato, il premio è stato conferito ai registi Giuseppe Bertolucci, Marco Bellocchio, Ugo Gregoretti, Giuliano Montaldo, Massimo Scaglione, Daniele Segre, Bruno Bozzetto, Lorenza Mazzetti, Costa-Gavras agli attori Roberto Herlitzka, Elio Pandolfi, Piera Degli Esposti, Lucia Bosè, Ottavia Piccolo e al compositore Manuel De Sica.
La diciottesima edizione del premio ha come protagonista Lorenzo Ventavoli (nato il 9 giugno 1932 a Torino) un uomo di cinema eclettico e impegnato su più fronti. Comincia infatti la sua avventura nella settima arte come semplice spettatore, per passione, per poi diventare uno dei più importanti e coraggiosi esercenti torinesi, con sale sparse in tutto il Piemonte (il cinema Romano è la prima sala italiana ad essere riconosciuta, nel 1960, come sala d’essai, mentre l’Eliseo è stata la prima multisala italiana) e attraversare il mondo della celluloide in tante altre vesti. Un percorso ‘liquido’ che lo porta naturalmente a distribuire film, ma anche a produrli, sceneggiarli (è il caso di Qualcuno dietro la porta, di Nicolas Gessner) o anche ad interpretarli – diverse e brillanti sono le prove d’attore che ci ha regalato in Il divo di Paolo Sorrentino, Preferisco il rumore del mare di Mimmo Calopresti, o Mirafiori Lunapark di Stefano di Polito – senza dimenticare il ruolo fondamentale che ha avuto come critico e storico. A testimoniare l’importanza di Ventavoli come guida e memoria storica del cinema torinese, in tutti i suoi numerosi legami con il mondo della cultura e dell’arte, sono senz’altro i suoi libri – tra questi Fin che c’è gioventù; La curiosa industria. Italo Cremona: un pittore al cinema.
Pochi, maledetti e subito. Giorgio Venturini alla Fert (1952-1957); Officina torinese. Una passeggiata in 100 anni di cinema (con Steve Della Casa) – ma anche le tante interviste grazie alle quali giornalisti, studiosi e appassionati di cinema hanno, nel tempo, ricostruito i momenti fondamentali di una lunga e fertile stagione cinematografica. Una di queste interviste è firmata da uno dei più importanti storici del cinema italiano, Gian Piero Brunetta, e compare, per la prima volta nella sua versione integrale, sulle pagine dell’ultimo numero della rivista dell’AMNC, Mondo Niovo 18-24 ft/s, diretta da Caterina Taricano.
Come di consueto, il numero, tutto dedicato al premiato – e curato da Caterina Taricano, Vittorio Sclaverani e Matteo Pollone – sarà presentato in occasione della consegna del Premio Maria Adriana Prolo e conterrà, oltre alla lunga intervista in cui Ventavoli racconta la Torino del cinema, anche numerose testimonianze di amici e collaboratori.
“Dedicare questo premio e questo numero della rivista a Lorenzo Ventavoli ci riempie di orgoglio e di gioia – dichiara Caterina Taricano – Ventavoli infatti è stato una guida e un modello importante per generazioni di cinefili, compresa la mia. È stato ed è una figura virtuosa (sempre più rare in questo momento storico) che con il suo esempio, e dimostrandosi sempre aperto al dialogo, ha insegnato moltissimo ai tanti giovani che negli anni si sono avvicinati al cinema”

Al termine della proiezione sarà proiettato Troppo tardi t’ho conosciuta, di Emanuele Caracciolo, unico film del regista tripolino che, arrestato il 21 febbraio del 1944 dai nazisti, fu una delle 335 vittime dell’eccidio delle fosse Ardeatine. Nel dopoguerra il film fu considerato “perduto”, e solo nel 2003 – proprio grazie alle ricerche compiute da Ventavoli – venne ritrovata una copia in nitrato a Cuneo, presso la famiglia Girardi, che ne aveva curato la distribuzione nell’Africa Orientale.
Il film – una delle primissime partecipazioni al cinema del famoso produttore Dino De Laurentiis, qui nelle vesti inedite di giovane attore – è una commedia brillante, tratta dal testo teatrale Il divo di Nino Martoglio. Protagonista è il tenore catanese Franco Lo Giudice, che sullo schermo è Tonino, il figlio del proprietario di un mulino in cerca di fortuna come cantante. Anche il padre conta sul successo del figlio per vincere la concorrenza di un vicino mulino a vapore.

Tonino, però, cade preda di un’avventuriera che punta ai suoi guadagni. Il padre, per aprire gli occhi al figlio, gli consiglia di fingere di perdere la voce, in modo da svelare gli intenti della donna, che infatti lo abbandona immediatamente. Il tenore però perde effettivamente la voce a causa di un medicinale e rinuncia così alla carriera, tornando al suo mulino.
Il Premio Maria Adriana Prolo è un iniziativa curata dall’Associazione Museo Nazionale del Cinema nell’ambito del progetto Nuovo Cinema Piemonte 2019 sostenuto dalla Fondazione CRT.
Prende il via il 18 novembre 2019 al Centro Studi Sereno Regis, in Via Garibaldi 13 a Torino, la rassegna cinematografica My Rojava – la resistenza si fa cultura, un progetto promosso da uno dei più importanti Centri Studi per la Pace e la Nonviolenza in Italia, dall’Associazione Museo Nazionale del Cinema e dal Rapporto annuale Global Rights, a sostegno della quarta edizione del Rojava International Film Festival. Il primo appuntamento è previsto per la giornata di lunedì a partire dalle ore 18.00 quando Murat Cinar, giornalista, dialogherà con Orsola Casagrande, redattrice del Rapporto annuale Diritti Globali, quest’ultima in collegamento via Skype. Si analizzerà la situazione attuale a Serekaniye e saranno proiettati alcuni cortometraggi:
KOMINA (3′), che racconta il progetto del corso di cinema nel Rojava,
MAL (10′), una fiction girata a Raqqa dalla regista. direttrice del Rojava International Filmfest,
MIZGIN (2′), il racconto di una madre di Serekaniye
DIBISTAN (5′), fare scuola tra le macerie
La serata proseguirà con un apericena a offerta libera alle ore 19.30, con alcuni piatti della tradizione curda e mediorientale.

Alle ore 20.30 avrà luogo la proiezione del primo film che apre la rassegna My Paradise di Ekrem Heydo (Siria, 2016, 104′); seguirà il dibattito con il pubblico presente presso la Sala Gabriella Poli del Centro Studi Sereno Regis. Dichiara Orsola Casagrande di Diritti Globali: il film di Ekrem Heydo, My Paradise, racconta molto bene non solo la pluralità culturale, linguistica, etnica della città di Serekaniye, ma consente anche di capire come questa pluralità venga considerata una ricchezza e come venga valorizzata dal modello di Confederalismo Democratico che si sta cercando di mettere in pratica dal 2012 nel Nord Est della Siria. L’Amministrazione Autonoma promossa dai kurdi, infatti, fa della pluralità un asse portante di questo nuovo modello di governance, orizzontale e partecipato. In My Paradise conosciamo i compagni di scuola di Ekrem, kurdi, armeni, arabi… e assieme a Ekrem ne seguiamo le tracce: che ne è stato di loro durante e dopo l’occupazione e la liberazione di Serekaniye? Il film è stato girato nel 2013, dopo la liberazione della città che era stata occupata dai mercenari islamici legati alla Turchia da parte dei cittadini organizzati in Unità di Difesa del Popolo (YPG). Purtroppo oggi Serekaniye è stata di nuovo occupata da questi miliziani jihadisti sostenuti e guidati da Ankara.

My Paradise di Ekrem Heydo (Siria, 2016, 104′). Attraverso la storia di un gruppo di compagni di scuola della città di Serekaniye, ritratti in una foto di 25 anni prima, si racconta la storia recente dei territori del nord-est della Siria. Il film, oltre alla diversità culturale locale, ci mostra l’evoluzione e i conflitti nell’intera regione attraverso la quotidianità della vita delle persone.
Il film sarà proiettato in Sala Gabriella Poli, presso il Centro Studi Sereno Regis alle 20.30 del 18 novembre.